I ricordi di Justina

I Ricordi furono scritti da Justa Draenger a Cracovia, in prigione, su frammenti di carta igienica, nei primi mesi del 1943. Il testo fu nascosto in una stufa inutilizzata, trovato dopo la fine della guerra e pubblicato nel 1946. Justa e suo marito, tuttavia, erano stati giustiziati nell’autunno del 1943.


Non erano loro i primi rivoluzionari nella storia dell’umanità, non erano i primi a prendere le armi in mano per abolire il vecchio ordine di cose… Erano giovani, ed era quasi naturale che avessero scelto il metodo rivoluzionario. Ma erano anche ebrei e questo era il nocciolo della questione, qui era nascosta la tragica difficoltà del compito. Un ebreo rischiava la morte anche senza essere un rivoluzionario. Bastava che rimanesse se stesso, bastava che facesse un passo falso per cadere nella trappola.

Dentro il ghetto si poteva soltanto morire, o aspettare passivamente la deportazione per finire in una camera a gas. Ma chi voleva fare qualcosa doveva per forza uscire dal ghetto; a questo punto cominciava la più difficile delle lotte.

Era tanto facile dire: <<Sfuggite alla deportazione!>>. Ma come passare il muro col filo spinato, circondato dalla polizia? Come fare il primo passo per la strada libera? Si accorgeranno del bracciale e ti uccideranno sul posto. Allora buttare via il bracciale? Se ti vedranno fare così, ti consegneranno direttamente nelle mani della polizia. Anche se ti nasconderai nel portone più scuro, per cambiare la tua decorazione [= ovviamente, si parla del bracciale, in senso amaramente ironico – n.d.r.], sempre si troverà qualcuno, che ti ha visto entrare ebro ed uscire… chi?

Perché, pure se butterai via il bracciale cento volte, rimarrai ebreo lo stesso, un ebreo senza bracciale. Ti tradiscono i tuoi movimenti innervositi, ogni passo incerto, le spalle curve sotto il peso della disgrazia, lo sguardo da animale inseguito… Ad ogni passo ti guardavano sfacciatamente e col sospetto negli occhi, e non potevi, pover’uomo, non confonderti, non arrossire, non abbassare lo sguardo, rivelandoti ebreo.

Prima di raggiungere la prima stazione ferroviaria, già avevi dovuto affrontare una quantità di battaglie con i passanti, ognuno dei quali poteva essere un nemico nascosto, un ricattatore che ti avrebbe molestato, finché nella tasca ti fosse rimasto appena il denaro sufficiente per comprare un biglietto fino alla prossima stazione…

Chi aveva fatto almeno un viaggio di questo genere uscendone salvo poteva narrare una vera odissea. Per gli altri, un viaggio era un’impresa più o meno comoda, per un ebreo ogni movimento fuori del muro, era una sortita sotto il fuoco della battaglia. Come al fronte, anche qui lo salvava dalla morte il puro caso, il caso e la forza interiore dell’uomo; per temprare questa forza bisognava traversare una grande crisi, che poteva purificare e far diventare più forti, oppure abbattere fino a rendere più vigliacchi. […]

E si ricorda le parole di Marek, quando cominciarono le deportazioni: <<Dobbiamo passare da una città all’altra e far notare alla gente che non si tratta di una deportazione, ma di una esecuzione; che non si illudano di rischiare solo qualcosa. Debbono fuggire, fuggire in massa, riempire i treni, le strade, tutto il paese. Pensa come diventerebbe più duro il loro lavoro. E’ vero che le razzie diventerebbero una strage in massa, ma per noi non farebbe differenza, mentre essi sarebbero costretti a darsi molto da fare per stroncare una rivolta in atto. Alla fine non capirebbero più chi è ebreo e chi no, la segregazione diventerebbe impossibile e la loro rabbia passerebbe ogni limite. Perché ogni rivolta mina il loro potere, scuote il loro ordine>>.

(A.Nirenstajn, Ricorda cosa ti ha fatto Amalek, Torino, Einaudi, 1958, pp. 282-284)

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