Il campo di Belzec, nel rapporto Gerstein

Riportiamo un lungo passo del resoconto steso da Gerstein in data 26 aprile 1945 (a guerra non ancora finita) e da lui consegnato agli Alleati il 5 maggio, al momento della sua cattura. Dopo la stesura del rapporto, Gerstein fu interrogato da ufficiali francesi il 26 giugno e il 10 luglio 1945, e in quelle sedi confermò le proprie affermazioni, senza smentire nulla. Originariamente, il rapporto che presentiamo fu scritto in un francese zoppicante e incerto. Gerstein stesso, pertanto, stese più tardi altri due resoconti in lingua tedesca. La scena narrata va collocata intorno al 20 agosto 1942. Gerstein era accompagnato da un altro tecnico che lavorava per le SS, il prof. Pfannenstiel, docente di igiene dell’università di Margburg-Lahn.

Due giorni dopo partimmo per Belzec. Una piccola stazione speciale di due sole banchine è addossata alla collina di sabbia gialla, subito a nord della strada Lublino-Lwow. A sud, vicino alla scarpata, qualche casa di servizio e il cartello: Ufficio Belzec: delle Waffen-SS. Globocnik mi presentò all’SS-Hauptsturmführer Obermayer [errore di Gerstein; il nome corretto era Oberhauser – n.d.r.], di Pirmasens, che mi mostrò con molta reticenza le istallazioni. Quel giorno non si videro morti, ma un odore pestilenziale ammorbava tutta la zona. Di fianco alla stazione c’era una grande baracca vestiario con uno sportello valori. Più lontano una sala, con un centinaio di sedie, parrucchiere. Quindi un corridoio scoperto di 150 metri, chiuso ai due lati da filo spinato, con la scritta: Ai bagni e alle inalazioni. Davanti a noi un edificio tipo stabilimento per bagni; a destra e a sinistra, grandi vasi con gerani e altri fiori. Sul tetto, la stella di David in ottone. Sull’edificio la scritta: Fondazione Hackenholt.

Quel pomeriggio non scoprii altro. L’indomani mattina, dieci minuti prima delle sette, mi fu annunciato: <<Tra dieci minuti arriverà il primo treno!>>. E infatti, poco tempo dopo, arrivava un treno da Lemberg, 45 vagoni contenenti più di 6000 persone, 1450 già morte al loro arrivo.  Dietro al filo spinato dei finestrini, visi atterriti di bambini e ragazzi, di donne e uomini. Il treno si ferma: 200 ucraini incaricati di questo servizio tirano via le portiere e con fruste di cuoio cacciano gli ebrei fuori dalle vetture. Un altoparlante dà le istruzioni: togliersi tutti i vestiti nonché le protesi dentarie e gli occhiali. Appaiare le scarpe con pezzetti di spago distribuiti da un bambino ebreo. Consegnare tutti i valori, tutto il denaro allo sportello valori senza riceverne un cenno, una ricevuta. Le donne e le ragazze, farsi tagliare i capelli nella baracca del parrucchiere (un SS-Unterführer di servizio mi disse: <<Servono per fare qualche cosa di particolare per gli equipaggi dei sottomarini>>). Poi la marcia cominciò: a destra e a sinistra il filo spinato, dietro due dozzine di ucraini, fucile alla mano.

Si avvicinano. Io e Wirth ci ritroviamo davanti alle camere della morte. Passano uomini, donne, ragazze, bambini di ogni età, mutilati, tutti completamente nudi. In un angolo, un robusto SS dice ai disgraziati con una gran voce paterna: <<Non vi succederà niente di male! Bisogna solo respirare molto profondo, fortifica i polmoni questa inalazione, è un mezzo per evitare le malattie contagiose, è una bella disinfezione!>>. Gli domandavano quale sarebbe stata la loro sorte. Quello rispondeva: <<Gli uomini dovranno lavorare, costruire delle strade ferrate e delle case. Ma le donne non vi saranno obbligate; si occuperanno del mènage, della cucina>>. Per qualcuno di questi disgraziati si accendeva un’ultima piccola speranza, sufficiente perché andassero avanti senza resistenza verso le camere della morte. Ma la maggior parte di essi sa: il puzzo è inconfondibile! Ora salgono su per una scaletta di legno ed entrano nelle camere della morte, più senza dire una parola, sospinti dagli altri che vengono dietro di loro. Un’ebrea di circa quarant’anni, gli occhi come due fiamme, maledice gli assassini, ne riceve qualche frustata da parte dello stesso capitano Wirth e scompare nella camera a gas. Molti recitano le loro preghiere; altri chiedono: <<Chi è che ci darà dell’acqua per la morte?>> (rito israelita). […]

Delle SS spingono gli uomini nelle camere a gas: <<Riempirle bene>>, ha ordinato Wirth: 700-800 su 93 metri quadrati. Le porte vengono chiuse. Nel frattempo, il resto del carico resta nudo in attesa. Qualcuno mi dice: <<Nudi così, pieno inverno possono morirne!>>.  <<Ma non sono qui per questo?>> era la risposta. In quel momento comprendo la ragione della scritta: Hackenholt è il fuochista della diesel i cui gas di scappamento sono destinati a uccidere quei disgraziati. L’SS-Unterscharführer Hackenholt si sforza di mettere in marcia il motore. Ma niente! Arriva il capitano Wirth. Lo si vede bene, egli ha paura perché io assisto al disastro. Sì, io vedo tutto e aspetto. Il mio cronometro stop ha segnato tutto, 50 minuti, 70 minuti, la diesel non si mette in moto! Gli uomini aspettano invano nelle camere a gas. Si sentono piangere <<come nella sinagoga>>, dice il professor Pfannenstiel, l’occhio fisso al finestrino che si apre sulla porta di legno.

Il capitano Wirth, furioso, vibra qualche scudisciata all’ucraino che è l’aiutante di Hackenholt. Dopo 2 ore e 49 minuti – il mio orologio ha registrato tutto – la diesel si mette in moto. Fino a quel momento le vittime, nelle quattro camere a gas già stipate, ancora vivono, quattro volte 750 persone in quattro volte 45 metri cubi! Passano altri 25 minuti. Molti sono già morti: è quanto s’intravede dal finestrino quando un lampo di elettricità rischiara per un momento l’interno della camera. Dopo 28 minuti pochi sopravvivono ancora. Dopo 32 minuti, tutti infine sono morti.

Dall’altro lato alcuni addetti ebrei aprono le porte di legno. E’ stata promessa loro – per il loro terribile servizio – salva la vita, e una piccola percentuale dei valori e del denaro requisito. Come colonne di basalto, le vittime sono ancora là, ritte in piedi, non essendoci il ben che minimo spazio per cadere o piegarsi. Nella morte stessa, si riconoscono ancora le famiglie che si stringono per mano. Si dura fatica a separarli svuotando le stanze per il carico successivo, si gettano via i corpi bluastri, umidi di sudore e di orina, le gambe piene di sterco e di sangue mestruale. Due dozzine di inservienti si occupano di controllare le bocche, aprendole con dei ganci di ferro. <<Oro a sinistra, niente oro a destra!>>. Altri controllano gli ani e gli organi genitali cercando monete, diamanti, oro ecc. Alcuni dentisti strappano con dei martelletti denti d’oro, ponti, corone.

In mezzo a loro c’è il capitano Wirth. E’ nel suo elemento e, mostrandomi un grande barattolo pieno di denti, mi dice: <<Vedete voi stesso che quantitativo d’oro! E’ solamente di ieri e dell’altro ieri. Voi non immaginate che cosa troviamo ogni giorno tra dollari, diamanti, oro! Vedrete voi stesso!>>. Mi guidò da un gioielliere che aveva la responsabilità di tutti questi valori. Mi furono presentati anche uno dei direttori del grande magazzino Kufhaus des Westens e un ometto al quale si faceva suonare il violino: i capi dei commandos dei lavoratori ebrei. <<E’ un capitano dell’armata imperiale austriaca, cavaliere della croce di ferro tedesca!>> mi disse Wirth.

(S. Friedländer, L’ambiguità del bene. Il caso del nazista pentito Kurt Gerstein, Milano, Bruno Mondadori, pp. 73-75. Traduzione di M. T. Lanza)

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