Il ghetto di Varsavia

Mary Berg visse l’invasione tedesca dapprima a Lodz, poi a Varsavia. Stese il suo diario tra il 1939 e il 1944. Nel gennaio 1943, tuttavia, l’autrice riuscì ad uscire dal ghetto. Infatti, poiché sua madre era cittadina americana, Mary Berg e la sua famiglia furono trasferite in Francia, per essere scambiate con alcuni ufficiali tedeschi catturati dagli Alleati.

2 novembre 1940
Circola insistentemente la voce che il quartiere ebraico sarà presto chiuso. Alcuni dicono che sarà meglio per noi, perché i tedeschi non oseranno più commettere tanto sfacciatamente i loro delitti e perché saremo protetti dalle aggressioni dei fanatici polacchi. Ma altri, specie gli evasi dal ghetto di Lodz, sono atterriti: hanno già provato la vita in un quartiere chiuso, sotto la dominazione tedesca.

15 novembre 1940
Oggi è stato ufficialmente istituito il ghetto. E’ vietato agli ebrei uscire dai confini formati da certe strade. C’è molta agitazione in giro. I nostri circolano nervosamente per le strade sussurrandosi notizie, le une più fantastiche delle altre.

Sono già cominciati i lavori del muro, che sarà alto tre metri circa. Muratori ebrei, sorvegliati da soldati nazisti, posano un mattone sull’altro. Quelli che non lavorano con sollecitudine vengono frustati dai sorveglianti. Penso alla descrizione biblica della nostra schiavitù in Egitto. Ma dov’è il Mosè che ci libererà dai nostri nuovi ceppi?

Nelle vie dove il traffico non è stato bloccato completamente, stazionano sentinelle tedesche. Tedeschi e polacchi hanno il diritto di entrare nel quartiere chiuso, ma senza potervi introdurre alcun pacco. Lo spettro della fame opprime tutti.

20 novembre 1940
Le strade sono vuote. Riunioni straordinarie si svolgono in tutte le case. La tensione è spaventosa. Alcuni, i giovani soprattutto, chiedono che venga organizzata una protesta. Ma gli anziani considerano pericolosa l’idea. Siamo tagliati fuori dal mondo: non abbiamo più radio, telefoni e giornali. Solo gli ospedali e i posti di polizia polacchi situati entro il ghetto possono comunicare telefonicamente con l’esterno.

Gli ebrei che vivevano nel lato ariano della città hanno avuto l’ordine di trasferirsi nel ghetto entro il 12 novembre. Molti hanno atteso l’ultimo momento perché speravano di poter indurre i tedeschi, con la corruzione o con le proteste, ad abrogare il decreto del ghetto. Ma non essendosi verificato ciò, molti dei nostri sono stati costretti ad abbandonare su due piedi i loro appartamenti lussuosi e sono giunti nel ghetto portandosi soltanto alcuni fagotti.

Le ditte cristiane entro i confini del quartiere ebraico isolato sono autorizzate a rimanere temporaneamente, se possono dimostrare di avervi la loro sede da almeno venticinque anni. Molte fabbriche polacche e tedesche sono situate entro il ghetto e grazie ai loro operai e impiegati, abbiamo qualche contatto con il mondo esterno. […]

12 giugno 1941
Il ghetto va affollandosi sempre più; abbiamo in questo momento un afflusso costante di nuovi rifugiati. Si tratta di ebrei della provincia che sono stati spogliati di tutte le loro proprietà. La scena che si svolge al loro arrivo è sempre uguale: la guardia al cancello controlla l’identità del rifugiato e se scopre che è un ebreo gli dà uno spintone col calcio del fucile: segno che è autorizzato a entrare nel nostro Paradiso…

Questi disgraziati sono laceri e scalzi, con gli occhi tragici di chi muore di fame. Sono in gran parte donne e bambini. Affidati alla carità pubblica, vengono inviati nei cosiddetti asili, dove presto o tardi morranno.

Mi sono recata a visitare uno di questi rifugi. Una casa squallida, che stringe il cuore. Le parete delle stanze sono state abbattute per formare grandi sale: non ci sono bagni, né gabinetti, le condutture sono distrutte. Lungo le pareti sono allineate delle brande fatte di tavole coperte di stracci. Si vede qua e là qualche sudicio piumino. Ho visto coricati sul pavimento bambini sporchi, seminudi, scossi da un pianto convulso. In un angolo era seduta, in lacrime, una deliziosa bambina di quattro o cinque anni.  Non ho potuto impedirmi di accarezzarle i capelli biondi spettinati, La bambina mi ha guardato con i suoi grandi occhi azzurri e mi ha detto: <<Ho fame>>.

Ho provato un sentimento di profonda vergogna. Quel giorno io avevo mangiato, ma non avevo con me un pezzo di pane da darle. Mi sono allontanata senza più osare guardarla in faccia.

Durante la giornata, il gruppo degli adulti esce a cercare lavoro. I bambini, gli ammalati e i vecchi rimangono stesi sui loro giacigli. C’è in questi asili gente di Lublino, Radom, Lodz e Piotrkow: di tutte le province insomma. Hanno tutti da raccontare terribili storie di violenze e di esecuzioni in massa. E’ impossibile capire perché i tedeschi permettano a tutta questa gente di stabilirsi nel ghetto di Varsavia che contiene già quattrocentomila ebrei.

La mortalità è in continuo aumento. Solo l’inedia uccide da quaranta a cinquanta persone al giorno. Ma centinaia di nuovi rifugiati ne prendono di nuovo il posto. La comunità non ha mezzi per intervenire. Tutti gli alberghi sono gremiti e le condizioni igieniche trascuratissime. Il sapone è introvabile; ciò che si distribuisce col nome di sapone è una massa viscida che si disgrega appena entra in contatto l’acqua, che sporca invece di pulire.

Una delle piaghe del ghetto sono i mendicanti, che continuano a moltiplicarsi. Alcuni rifugiati non hanno più amici né parenti e non riescono nemmeno a trovare posto negli spaventosi asili fondati dalla Comunità. Costoro dedicano i primi giorni dopo l’arrivo alla ricerca di un lavoro. La notte dormono sulle soglie delle porte, cioè nella stradaQuando le loro forze si esauriscono e i loro piedi gonfi rifiutano di sostenerli, siedono sull’orlo dei marciapiedi o si appoggiano a un muro e chiedono la carità con gli occhi aperti. Quando il morso della fame si fa più crudele, cominciano a piangere… e così prendono vita i cosiddetti mendicanti rabbiosi… Alcuni buttano loro venti groszy o perfino mezzo zloty, ma con somme così piccole non si può acquistare niente.

(M. Berg, Il ghetto di Varsavia. Diario (1939-1944), Torino, Einaudi, 1991, pp. 31-34 e 66-68. Traduzione di M. Martone)

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