Le memorie di un attivista comunista impegnato nella requisizione del grano in Ucraina

Tratto dalle memorie di Lev Kopelev, il testo mostra con chiarezza la mentalità degli attivisti comunisti russi, inviati da Stalin in Ucraina a requisire tutto il grano disponibile. Il risultato fu una terribile carestia, che provocò 5 o 6 milioni di morti.

 

Come tutti quelli della mia generazione, credevo fermamente che il fine giustificasse i mezzi. Il nostro grande obiettivo era il trionfo universale del comunismo, e per raggiungere tale obiettivo era permesso tutto: mentire, rubare, distruggere centinaia di migliaia, e perfino milioni di persone, tutti quelli che ostacolavano o avrebbero potuto ostacolare il nostro lavoro, chiunque vi si frapponesse. Ed esitare o dubitare di ciò significava cedere alla "schizzignosità intellettuale" e allo "stupido liberalismo" proprio delle persone che "non distinguono una foresta dall’albero".

Questo è il modo in cui io e tutti quelli come me ragionavamo, anche quando [...] vidi cosa significasse la "collettivizzazione totale", come si "kulakizzasse" [= come si procedeva alla individuazione di un kulako, da deportare – n.d.r.] e "dekulakizzasse" [= come si procedeva alla liquidazione dei kulaki – n.d.r.], come si spogliassero i contadini senza pietà nell’inverno 1932-1933. Io stesso presi parte a tutto ciò: ho battuto le campagne, ho cercato il grano nascosto, percuotendo il terreno con una mazza di ferro per vedere se vi avevano seppellito il grano. Ho svuotato le madie dei vecchi contadini, sordo alle grida dei bambini e ai lamenti delle donne. Ero convinto di star compiendo la grandiosa e necessaria trasformazione delle campagne, che in futuro la gente che viveva lì sarebbe stata meglio grazie a ciò, che i loro dolori e loro sofferenze fossero il risultato della loro ignoranza o delle macchinazioni del nemico di classe, che coloro che mi avevano mandato, e io stesso, sapessimo meglio dei contadini come essi dovessero vivere, cosa essi dovessero seminare, e quando dovessero arare.

Nella terribile primavera del 1933 vidi la gente morire di fame. Vidi donne e bambini con il ventre gonfio, che diventava blu; respiravano ancora, ma i loro occhi erano spenti, privi di vita. E cadaveri, cadaveri avvolti in laceri pastrani di pelle di pecora, e miseri stivali di feltro; cadaveri nelle capanne, tra la neve quasi sciolta del vecchio Vologda che scorreva sotto i ponti di Char’kov [città dell’Ucraina – n.d.r.] [...]. Vidi tutto questo e non uscii di senno, né mi suicidai. Né maledii quelli che mi avevano mandato lì a portar via il grano ai contadini d’inverno, e in primavera a persuadere quella gente che a stento si reggeva in piedi, ridotta pelle e ossa o con le membra gonfie, ad andare nei campi per "realizzare il piano bolscevico per la semina con metodi da lavoratore d’assalto".

E non persi la mia fede. Come prima, io credevo perché volevo credere.

(R. CONQUEST, Raccolto di dolore. Collettivizzazione sovietica e carestia terroristica, Roma, Liberal Edizioni, 2004, pp. 269-270. Traduzione di V. de Vio Molone e S. Minucci)

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