I rapporti con la popolazione civile nella memoria di un ex deportato
La tragedia dei lager ha cancellato i luoghi. Nessuno o quasi sospetta che dietro i nomi vi siano paesi, località vissute per secoli della propria fisionomia. Mauthausen manda un suono cupo, per chi appena conosce quel che è accaduto, e tuttavia si presenta al visitatore come una cittadina gradevole, ben disposta nel paesaggio collinare.
Come ha vissuto la sua gente negli anni della follia? Io non so molto; ho provato a farmi un’idea dopo, indirettamente. Ho letto, chiesto, riallacciato particolari, ho confrontato le testimonianze di chi proveniva da situazioni analoghe. La memoria mi suggerisce l’impressione del nascondimento: gente che spariva al nostro passaggio, intimata di non vedere e, a sua volta, pronta a ubbidire. [...]
Ho la traccia di una cicatrice, sotto la natica, e la devo a uno dei rari civili visti da vicino durante il trasferimento dal campo al luogo di lavoro. Da Gusen all’officina c’erano due o tre chilometri che percorrevamo incolonnati. Alcuni lavoratori civili, che in quell’officina svolgevano funzioni direttive, camminavano di lato.
A un certo momento dovemmo serrare, cioè recuperare la distanza con qualche passo di corsa. Nel farlo maldestramente – a causa dello sforzo sempre eccessivo, nelle nostre condizioni fisiche – gettai un piede in una pozzanghera. Gli spruzzi di fango raggiunsero uno di questi civili che, infuriato, mi venne addosso. Mi sferrò un calcio; con tale forza che fui sollevato da terra.
Dovevo rialzarmi senza reagire. Lo feci alla svelta e ripresi il mio posto nella fila.
(P. Iotti con T. Masoni, Sono dov’è il mio corpo. Memoria di un ex deportato a Mauthausen, Firenze, Giuntina, 1995, pp. 45-47).