Da Kem' alle Solovki

Negli anni Venti, moltissimi detenuti ricordano nelle loro memorie il vecchio piroscafo GlebBokij che li trasferiva dal molo di Kem’ alle isole Solovki. Il tragitto durava poche ore, ma l’esperienza era spesso durissima, in quanto i prigionieri erano stipati nella stiva e respiravano a fatica la poca aria disponibile. La scena seguente, narrata da Dmitrij Lichacev, dev’essere collocata nel 1928.

Per la notte ci mandarono in una baracca sull’isola Popov [ove si trovava il molo di Kem’, dal quale partivano le navi dirette alle Solovki – n.d.r.]. Ci avrebbero trasferito la mattina seguente. Restammo in piedi tutta la notte. I tavolacci erano occupati da ladri seminudi, i pidocchiosi, che ci tiravano addosso le pulci: di lì a un’ora ne fummo tutti coperti dalla testa ai piedi. Appena spensero la luce parve che un sipario scuro calasse dalle pareti su chi era coricato. Erano le cimici... [...]

Il giorno dopo ci caricarono sul piroscafo Gleb Bokij, diretto alle Solovki. Mi trovai a fianco di uno scassinatore, Ovcinnikov, che mi prevenì: "Non abbia fretta, resti per ultimo".

Era la seconda volta che finiva alle Solovki. La prima era riuscito a evadere, ma lo avevano riacciuffato quando era andato a trovare la sua bella sulla Sennaja, a Leningrado. Aveva fatto tutta la strada a piedi lungo le traversine del treno con un paio di ramponi sulle spalle. Quando avvistava una pattuglia, se li infilava e si arrampicava sul più vicino palo del telegrafo. Va da sé che le guardie non si sognavano nemmeno di tirare giù dal palo un operaio che stava lavorando!

A Kem’, Ovcinnikov era stato pestato a sangue. Lo avevano picchiato perché aveva messo nel sacco le sentinelle e i capi, e perché "aveva rovinato la media" (evadere dalle Solovki era ritenuto impossibile). Ma pur se bastonato, lo scassinatore era pur sempre un uomo. Noi gli procuravamo da mangiare, e lui ci dava dei consigli. Quando cominciarono a stipare gente nella stiva del piroscafo, ci tirò da parte sulla piazzola della scala e ci consigliò di non scendere oltre. E in effetti più in basso già cominciava a mancare l’aria. Le guardie ci fecero uscire a respirare solo una volta o due. Dopo nove mesi di carcere respiravo avidamente l’aria fresca di mare, e osservavo le onde e le isole spoglie che incrociavamo.

Una volta prossimi alle Solovki ci spinsero di nuovo nel ventre del Gleb Bokij (la persona in onore della quale avevano dato quel nome al piroscafo era un cannibale: il capo della trojka [= commissione speciale, formata da tre funzionari – n.d.r.] dell’OGPU che sceglieva tra reclusione e fucilazione dei detenuti). Dal frusciare del ghiaccio contro lo scafo capimmo che stavamo avvicinandoci al molo. Era la fine di ottobre e le rive erano coperte da un sottile strato di ghiaccio. Ci fecero scendere con le nostre cose, ci misero in fila, ci contarono. Poi estrassero i corpi di chi era morto soffocato nella stiva o ne usciva gravemente ferito: schiacciato fino ad averne le ossa rotte, fino alla dissenteria.

(D.M. LICHACEV, La mia Russia, Torino, Einaudi, 1999, pp.130-132. Traduzione di C. Zonghetti)

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