Le memorie di un sinti sopravvissuto ad Auschwitz

Otto Rosenberg è nato nel 1927. Dapprima, nel 1936, l’anno delle Olimpiadi di Berlino, fu obbligato a risiedere a Marzahn, poi fu deportato ad Auschwitz e in altri campi.

Mi nominarono sentinella della baracca in cui si trovava mia nonna. Il capobaracca, un certo Wally, prima di assegnarmi l’incarico mi colpì cinque volte con un bastone e disse: “Se fai uscire qualcuno senza il mio permesso, te ne do ancora. Durante la serrata non deve uscire nessuno, siamo intesi?”. […] Mio cugino godeva di una certa autorità nel blocco. Con gli altri prigionieri era molto severo, bastava che qualcuno facesse un movimento sbagliato e già era pronto a colpirli L’ho visto spesso picchiare gli altri mentre faceva su e giù lungo la stufa che stava al centro della baracca. Se fosse scampato ad Auschwitz qualcuno l’avrebbe senz’altro fatto fuori dopo. Non che io glielo augurassi intendiamoci, dopotutto era mio cugino. Io, dal canto mio, sono contento di essere sopravvissuto ad Auschwitz e di poter guardare in faccia chiunque senza problemi, non ho mai fatto male a nessuno e per fortuna nessuno ne ha fatto a me. E’ vero, un manganello ce l’ho avuto anch’io, e qualche volta, quando qualcuno si attardava intorno al pentolone della zuppa e ci infilava la testa dentro per finirsi i resti, l’ho pure usato.

“Allora, lo volete assaggiare?”.

Così se ne andavano e io con la mia tazza mi finivo i resti, però dovevo sbrigarmi perché quelli dopo un po’ ritornavano alla carica. Oggi a ripensarci mi viene da ridere, ma allora facevamo sul serio.

Ogni tanto quelli che lavoravano in cucina riuscivano a sgraffignare qualche patata e quando il Blockälteste [= il Kapo responsabile del blocco – n.d.r.] non c’era, aprivo lo sportellino della stufa, ci infilavo dentro la pentola con le patate e poi lo richiudevo. La stufa occupava in lunghezza praticamente quasi tutta la baracca e a ogni estremità aveva un camino. Se il Blockälteste mi avesse pizzicato mi avrebbe impiccato, ma pur di mangiare qualcosa correvo lo stesso il rischio. Questo era, per così dire, l’extra che mi guadagnavo come sentinella, e non era poco perché mi aiutava a tirare avanti.

I comuni prigionieri, quelli che non potevano contare sull’appoggio di nessuno, erano i primi a soccombere. Chi veniva picchiato era segnato. I deboli, coloro che erano ormai a due passi dalla tomba, suscitavano in quelli più forti una tale aggressività che finivano con l’essere picchiati e maltrattati sempre di più, fino a quando morivano davvero. Una persona debole non aveva nessuna possibilità di sopravvivere. Nel lager ti salvavi solo se eri sano e quindi ancora buono per lavorare. Dopotutto: “Il lavoro rende liberi!” era il motto del campo di concentramento, anche se sarebbe stato più esatto dire: “Il lavoro annienta” perché quelli ti spremevano fino a quando non c’era più niente da spremere.

Il cibo faceva veramente schifo. La mattina gli inservienti passavano con un paiolo e ci davano de tè e un quarto di pane. In realtà era meno di un quarto perché dal centro ci toglievano sempre una grossa fetta per i bambini. A pranzo poi, ci davano una brodaglia con dentro ortiche e qualche pezzo di cavolo, un po’ poco per tenerci in forze. […]

Dopo qualche tempo mi ammalai di nuovo. Mi venne la scabbia e dovetti smettere di lavorare. Fu una cosa tremenda, avevo pustole e pus dappertutto, dal viso fino ai piedi, non riuscivo più neanche a chiudere le dita delle mani. Mi curarono con il Mitigal, un liquido bianco e cremoso. Fu tremendo, ma come vede, me la cavai anche quella volta.

Sa, ancora oggi mi domando perché di tanti sono sopravvissuto proprio io. La mia famiglia è stata completamente sterminata, le mie sorelle, i miei fratelli, le persone care. Non si è salvato nessuno. Eppure i miei fratelli erano molto più forti di me! Dopotutto io ero il più piccolo! E’ una cosa che non riuscirò mai a spiegarmi. Certo, qualcuno a questo punto mi potrebbe dire che io perlomeno mi sono salvato e che quindi dovrei essere contento. E come? La mia famiglia mi manca, mi è sempre mancata, e ogni volta, nei giorni di festa, quando tutti si siedono insieme a tavola, io sento dentro di me questo vuoto, questa tristezza. No, non è stato facile, non è facile.

O. Rosenberg, La lente focale. Gli zingari nell’Olocausto, Venezia, Marsilo, 2000, pp. 65-69. Traduzione di M. Balì

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