Per essere umani bisogna vivere in condizioni umane

Nato nel 1919, lo scrittore polacco Gustaw Herling fu arrestato nel marzo 1940 e poi detenuto in un lager sovietico della regione di Kargopol’ fino al 1942. La prima edizione delle sue memorie di prigioniero uscirono a Londra nel 1951. Le sue riflessioni sui compromessi e sulle azioni immorali compiute in lager, pur di sopravvivere, sono molto simili alle conclusioni di Levi: “Nessuno può sapere quanto a lungo, ed a quali prove, la sua anima sappia resistere prima di piegarsi o di infrangersi. Ogni essere umano possiede una riserva di forza la cui misura gli è sconosciuta: può essere grande, piccola o nulla, e solo l’avversità estrema dà modo di valutarla. […] Ogni individuo è un oggetto talmente complesso che è vano pretendere di prevederne il comportamento, tanto più se in situazioni estreme; neppure è possibile antivedere il comportamento proprio”. Così Levi ne I sommersi e i salvati (Torino, Einaudi, 1986, p. 45).

Ma già in Se questo è un uomo (nel capitolo centrale, intitolato, proprio come l’ultimo libro, I sommersi e i salvati) il suo giudizio era quanto mai stimolante: “Noi non crediamo alla più ovvia e facile deduzione: che l’uomo sia fondamentalmente brutale, egoista e stolto come si comporta quando ogni sovrastruttura civile sia tolta, e che lo Häftling non sia dunque che l’uomo senza inibizioni. Noi pensiamo piuttosto che, quanto a questo, null’altro si può concludere, se non che di fronte al bisogno e al disagio fisico assillanti, molte consuetudini e molti istinti sociali sono ridotti al silenzio”.

[In Germania e nella Russia Sovietica] si è sperimentato che, quando il fisico di un uomo ha raggiunto il limite estremo di resistenza, non si può più contare, come si riteneva prima, sulla forza di carattere e sul rispetto dei valori spirituali; non c’è nulla in realtà che l’uomo non possa essere indotto a fare dalla fame e dalla sofferenza fisica. […] Sono giunto al convincimento che l’uomo può essere umano solo in condizioni umane, e considero assurdo il giudicarlo severamente dalle azioni che egli compie in condizioni disumane, come sarebbe assurdo misurare l’acqua dal fuoco, e la terra dall’inferno. E la difficoltà, per uno scrittore che intenda descrivere obiettivamente un campo di lavoro sovietico, è ch’egli è costretto a scendere nelle profondità dell’inferno dove non è possibile trovare ragioni umane che spieghino azioni disumane. E di laggiù i volti dei suoi compagni morti e di quelli forse ancora in vita guardano a lui, e le loro labbra, livide di fame e di freddo, sussurrano: “Racconta tutta la verità su di noi, di’ che cosa siamo stati costretti a fare”.

In difesa delle donne va detto che la morale del campo, come ogni altro sistema di valori, aveva la sua ipocrisia. Così, per esempio, a nessuno sarebbe passato per la mente di biasimare un giovane se, per migliorare la sua situazione, diventava l’amante dell’anziana dottoressa dell’ospedale, ma la graziosa ragazza che si dava per fame al vecchio ripugnante addetto al deposito del pane, era naturalmente una prostituta. […] Le donne si prestavano benissimo a servire da capri espiatori, non solo perché di rado avevano da vendere qualcos’altro che il proprio corpo, ma anche perché persino nel campo portavano su di sé il peso della morale convenzionale vigente nel mondo esterno, secondo la quale l’uomo che possiede una donna dopo un breve corteggiamento è un brillante seduttore, ma la donna che si dà a un uomo appena conosciuto è di facili costumi. Il criterio morale, e la conseguente ipocrisia, varia secondo le condizioni di vita del prigioniero prima dell’arresto. Il problema non esisteva in realtà per i russi, abituati ai matrimoni da cinque rubli e alle unioni carnali nei gabinetti pubblici secondo gli immediati istinti fisiologici, e il loro atteggiamento verso di esso si esprimeva nello scherno con cui salutavano l’oistituzione dell’eguaglianza legale concessa alle donne dal nuovo regime. I prigionieri stranieri, e anche i comunisti più anziani, scuotevano sovente la testa sul generale declino della moralità in Russia.

Comunque, è certo che la fame più di ogni altra cosa vinceva la resistenza delle donne; e dopo, non c’erano più ostacoli a fermarle per quella china che le riduceva ai più bassi gradi dell’animalità sessuale. Alcune cedevano, non solo per migliorare la propria situazione o per trovare un protettore potente, ma anche nella speranza della maternità. E questo non va inteso in senso sentimentale: le donne incinte nel campo erano libere dal lavoro tre mesi prima e sei mesi dopo il parto. Sei mesi era un periodo stimato sufficiente per l’allattamento del neonato, che veniva poi tolto alla madre e portato via per qualche ignoto destino. La baracca della maternità di Ercevo era sempre piena di donne che con patetica gravità spingevano avanti a fatica il peso dei loro ventro gonfi, andando in direzione della cucina a prendere la minestra. Ma riesce difficile parlare di sentimenti, di reali sentimenti umani in quella situazione, quando si era costretti a far l’amore in presenza dei compagni di prigione, o, nella migliore delle ipotesi, nel magazzino degli abiti vecchi, su pile di stracci sudati e maleodoranti. A distanza di tanti anni resta nella memoria una sensazione di disgusto come nel rotolarsi nel fondo melmoso di una fontana disseccata, e un profondo disprezzo per se stesso e per la donna che una volta sembrava così vicina…

G. Herling, Un mondo a parte, Milano, Feltrinelli, 1994, pp. 151-154. Traduzione di G. Magi, riveduta dall’autore

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