La protesta dei deputati Bulgari

Nel 1969, Dimitar Peshev rilasciò una lunga dichiarazione a Vasilka Damjanova, un’archivista incaricata dal regime comunista bulgaro di approfondire gli eventi della seconda guerra mondiale in Bulgaria. Al centro delle memorie di Peshev, l’episodio del suo intervento presso il governo per fermare le deportazioni e la successiva lettera di protesta firmata da 42 deputati. La petizione fu consegnata al primo ministro il 17 marzo 1943.

Mi ponevo la domanda: che fare? Non potevo più tacere e restare inattivo quando erano in gioco questioni così importanti. Il silenzio sarebbe stato contrario alla mia coscienza e al mio senso di responsabilità di deputato e di uomo, e mi sarei reso complice di tutto ciò che sarebbe potuto accadere in seguito.

Così decisi di agire. Ma come? Avevo capito che i gesti personali, pur se praticabili, potevano dimostrarsi, alla lunga, di scarsa efficacia. Non erano sufficienti per garantire un esito positivo. Il governo li poteva ribaltare con le stesse motivazioni con cui aveva giustificato l’approvazione dei provvedimenti antiebraici… Per evitare l’irreparabile e raggiungere l’obiettivo bisognava porre la questione in Parlamento. […]

Per ottenere risultati positivi l’azione doveva provenire esclusivamente dalla maggioranza parlamentare, senza mettere in discussione né il regime politico né la fiducia nel governo. La presa di posizione doveva riguardare soltanto la deportazione degli ebrei e la loro consegna a un altro paese. Ero convinto che solo in questo modo la mia proposta potesse ottenere il consenso di un gran numero di deputati.

Ecco perché non risposi al deputato dell’opposizione Petko Stajnov, che mi aveva scritto un biglietto in cui mi esprimeva il desiderio di sottoscrivere il mio esposto, qualora lo avessi ritenuto opportuno. […]

“La nostra unica richiesta [così recitava il testo della petizione] è che vengano prese in considerazione solo quelle misure riguardanti le reali necessità dello Stato e della nazione nel momento attuale e che non vengano dimenticati gli interessi relativi al prestigio e alla posizione morale della nostra nazione. Non vogliamo contestare alcuna misura imposta dalle ragioni di sicurezza dettate dai tempi in cui viviamo… L’eliminazione di ogni ostacolo al successo della sua politica è un diritto dello Stato, e nessuno lo può negare, ma esiste un limite alle necessità reali e non bisogna cadere negli eccessi che si possono definire crudeltà inutili. […] Le piccole nazioni non possono permettersi di trascurare questi argomenti che, qualsiasi cosa accada in futuro, costituiranno sempre un’arma potente, forse la più potente di tutte”. […]

Chi voleva, veniva e la firmava. E molti la firmarono. Alla fine mi recai dal presidente del Parlamento, Hristo Kalfov. Pensavo di compiere il mio dovere e dar prova di correttezza. Non volevo che il presidente venisse a conoscenza della lettera da voci di corridoio. Desideravo informarlo di persona in qualità di suo vice. Così andai da lui e gli comunicai le mie intenzioni. Dopo aver letto la lettera, Kalfov fu categorico e mi disse: “Non è conveniente”. Mi trattò con freddezza e diventò sospettoso. Ciò nonostante insistei e gli spiegai che in ogni caso la lettera sarebbe stata presentata. […]

Constatai che molti deputati mettevano la loro firma con grande sollievo. Si vedeva benissimo quanto nel loro intimo fossero turbati per ciò che si stava delineando nel paese. Anche se non si sentivano direttamente responsabili, si capiva che non potevano accettare il corso degli eventi. Mi ricordo le parole del deputato di Breznik, Aleksandar Simov Gigov, che, dopo aver firmato, si lasciò andare a un’esclamazione di gioia: “La dignità della Bulgaria è salva”.

Le sue parole esprimevano esattamente i sentimenti e le convinzioni di tutti coloro che fino a quel momento non avevano immaginato ciò che sarebbe potuto accadere, ma che ora non potevano accettare quello che avevano scoperto.

G. Nissim, L’uomo che fermò Hitler. La storia di Dimitar Peshev che salvò gli ebrei di una nazione intera, Milano, Mondadori, 1998, pp. 144-149

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