L'atteggiamento di Rudolf Höss

Nelle sue memorie, il comandante di Auschwitz Rudolf Höss non mostra alcun segno di pentimento. Anzi, il testo denota un tipico atteggiamento SS: autocommiserazione per la durezza del compito ricevuto dai superiori, e orgoglio per il fatto di aver saputo portarlo a termine, malgrado tutto.

Questo sterminio in massa, con tutti i fenomeni che lo accompagnarono, per quanto so, non mancò di lasciare tracce in coloro che vi presero parte. In verità, tranne pochissime eccezioni, tutti coloro che erano comandati a questo mostruoso lavoro, a questo servizio, ed io stesso, ebbero impressioni assai profonde. La maggioranza di essi, quando compivo i giri d’ispezione agli edifici destinati allo sterminio, mi si avvicinavano per sfogare con me le loro impressioni e le loro angosce, nella speranza che potessi aiutarli. La domanda che inevitabilmente sgorgava dalle loro conversazioni confidenziali era sempre una: è proprio necessario ciò che dobbiamo fare? È proprio necessario sterminare così centinaia di migliaia di donne e di bambini? E io, che nel mio intimo mi ero posto infinite volte le stesse domande, ero costretto a rammentar loro il comando del Führer, perché ne traessero conforto. Dovevo affermare che questo sterminio degli ebrei era veramente necessario, affinché la Germania, affinché i nostri discendenti, per il futuro fossero finalmente liberati dai loro nemici più accaniti.

È vero che l’ordine del Führer era indiscutibile per tutti noi, così come il fatto che questo compito dovesse essere assolto dalle SS. Ma ciascuno di noi era tormentato da dubbi segreti. Quanto a me, in nessun caso avrei potuto esternare i miei dubbi. Per costringere i miei collaboratori a tener duro, dovevo a mia volta mostrarmi incrollabilmente persuaso della necessità di realizzare quell’ordine così spaventosamente crudele. Gli occhi di tutti erano fissi su di me; tutti scrutavano le impressioni suscitate in me dalle scene che ho descritto, tutti studiavano le mie reazioni. Insomma, ero al centro dell’attenzione di tutti, e ogni mia parola era oggetto di discussione. Dovevo perciò controllarmi all’estremo , perché sotto l’impressione di simili avvenimenti non venissero alla luce dubbi ed angosce. […] Era mio dovere assistere a tutte le operazioni.

Era mio dovere, fosse giorno o notte, assistere quando li estraevano dalle camere, quando bruciavano i cadaveri, quando estraevano i denti d’oro, tagliavano i capelli; dovevo assistere per ore e ore a questi spettacoli orrendi. Nonostante la puzza orribile, disgustosa, dovevo essere presente anche quando si aprivano le immense fosse comuni, si estraevano i cadaveri e si bruciavano. Attraverso le spie aperte nelle camere a gas dovevo assistere anche alla morte, perché i medici richiedevano anche la mia presenza. Dovevo fare tutte queste cose perché ero colui al quale tutti guardavano, perché dovevo mostrare a tutti che non soltanto impartivo gli ordini e prendevo le disposizioni, ma ero pronto io stesso ad assistere ad ogni cosa, così come dovevo pretendere dai miei sottoposti.

Il Reichsführer delle SS inviava spesso alti funzionari del Partito e delle SS ad Auschwitz, affinché assistessero alle operazioni di sterminio degli ebrei. Alcuni di costoro, che per l’innanzi erano stati zelanti assertori della necessità di queste stragi, assistendo a questa soluzione finale della questione ebraica diventavano molto silenziosi e pensosi. Spesso mi venne chiesto come potevo io, come potevano i miei uomini assistere di continuo a queste operazioni, come facevamo a resistere. Rispondevo sempre che tutte le emozioni umane dovevano tacere di fronte alla ferrea coerenza con la quale dovevamo attuare gli ordini del Führer. Ciascuno di quei signori dichiarava che non avrebbe voluto ricevere un compito analogo. […]

Quando un avvenimento mi impressionava oltre misura, non mi era possibile tornare a casa mia, alla mia famiglia. Allora montavo a cavallo e cercavo con una folle galoppata di scacciare dalla mente quelle orrende immagini, oppure, di notte, andavo nelle scuderie, e la vicinanza dei miei beniamini mi procurava un certo conforto. […] La mia famiglia stava bene ad Auschwitz. Ogni desiderio di mia moglie o dei bambini era esaudito. I bambini vivevano liberi e all’aperto, e mia moglie aveva il lusso di un giardino fiorito che era un vero paradiso. I prigionieri facevano di tutto per compiacere mia moglie e i bambini, per usar loro delle cortesie. Del resto, nessun prigioniero potrebbe affermare di essere stato minimamente maltrattato a casa mia. Mia moglie avrebbe regalato volentieri qualcosa a ogni prigioniero che faceva un lavoro a casa nostra e i bambini erano sempre a mendicare sigarette per loro. Volevano bene soprattutto ai giardinieri, dato anche il grande amore che tutta la nostra famiglia nutriva per la campagna e in particolare per gli animali.

Ogni domenica i bambini mi costringevano a fare lunghe passeggiate per i campi, a passare in rassegna le stalle, né potevo trascurare i canili. Un affetto particolare dedicavano ai nostri due cavalli e al puledro. In giardino avevano sempre qualche animale, dono dei prigionieri. Fossero tartarughe o martore o gatti o lucertole, nel giardino c’era sempre qualcosa di nuovo e di interessante.

D’estate, sguazzavano nella vasca del giardino, o nella Sola [= il fiume che scorre nei pressi della città di Oswiecim – n.d.r.]. Ma la loro gioia più grande era di poter avere con sé al bagno il paparino. Purtroppo, questi aveva poco tempo da dedicare ai giochi infantili. Oggi rimpiango amaramente di non aver serbato più tempo libero per la famiglia. Purtroppo la mia preoccupazione costante era di essere sempre in servizio, e con questa esagerata coscienza del dovere ho reso la mia vita più difficile di quanto non fosse già di per sé. Spesso mia moglie mi ammoniva: non pensare continuamente al servizio, pensa un poco anche alla tua famiglia. Ma che ne sapeva mia moglie di tutte le cose che mi angosciavano? Per sua fortuna le ha sempre ignorate.

R. Höss, Comandante ad Auschwitz. Memoriale autobiografico di Rudolf Höss, Torino, Einaudi, 1985, pp. 135-139. Traduzione di G. Panzieri Sajna. Prefazione di P. Levi

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