Il lento ritorno alla vita di Primo Levi

Nel suo secondo lavoro, La tregua, del 1965, Primo Levi descrisse la liberazione del campo, le cure mediche dei russi agli ex-prigionieri e le peripezie vissute nella lunga odissea che dovette compiere per poter ritornare in Italia. Le scene seguenti si svolsero dapprima a Monowitz (la liberazione) e poi ad Auschwitz I (chiamato nel libro Il Campo Grande), trasformato dai russi in ospedale.

La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di Sómogyi, il primo dei morti fra i nostri compagni di camera. Rovesciammo la barella sulla neve corrotta, ché la fossa era ormai piena, ed altra sepoltura non si dava. Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti.

Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo […]: quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo.

Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altri, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.

Così per noi anche l’ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti. Poiché, ed è questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell’offesa, che dilaga come un contagio. È stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia. […]

Come ad ogni svolta del nostro così lungo itinerario, fummo sorpresi di essere accolti con un bagno, quando di tante altre cose avevamo bisogno. Ma non fu quello un bagno di umiliazione, un bagno grottesco-demoniaco-sacrale, un bagno da messa nera come l’altro che aveva segnato la nostra discesa nell’universo concentrazionario, e neppure un bagno funzionale, antisettico, altamente tecnicizzato, come quello del nostro passaggio, molti mesi più tardi, in mano americana: bensì un bagno alla maniera russa, a misura umana, estemporaneo ed approssimativo. Non intendo già mettere in dubbio che un bagno, per noi in quelle condizioni, fosse opportuno: era anzi necessario, e non sgradito. Ma in esso, ed in ciascuno di quei tre memorabili lavacri, era agevole ravvisare, dietro all’aspetto concreto e letterale, una grande ombra simbolica, il desiderio inconsapevole, da parte della nuova autorità che volta a volta ci assorbiva nella sua sfera,di spogliarci delle vestigia della nostra vita di prima, di fare di noi degli uomini nuovi, conformi ai loro modelli, di imporci il loro marchio. […]

La mia attenzione, e quella dei miei vicini di letto, raramente riusciva ad eludere la presenza ossessiva, la mortale forza di affermazione del più piccolo ed inerme fra noi, del più innocente, di un bambino, di Hurbinek.

Hurbinek era un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz. Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome: quel curioso nome, Hurbinek, gli era stato assegnato da noi, forse da una delle donne [= le infermiere russe e polacche che si occupavano dei superstiti del lager – n.d.r.], che aveva interpretato con quelle sillabe una delle voci inarticolate che il piccolo ogni tanto emetteva. Era paralizzato dalle reni in giù, ed aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi, persi nel viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. La parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno di noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena. […] Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero; Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all’ultimo respiro, per conquistarsi l’entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek morì ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento. Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole.

P. Levi, La tregua, Torino, Einaudi, 1980, pp. 14-16; 23-24; 27-29

Azioni sul documento