Venerdì sera al crematorio

Salmen Gradowski scrisse questo testo nel 1944 e lo seppellì nei pressi del Crematorio IV di Auschwitz II-Birkenau. Il manoscritto fu scoperto nell’estate del 1945, ma rimase inedito fino al 1977. Con grande finezza, Gradowski delinea i vari atteggiamenti, assunti dai numerosi membri del Sonderkommando, di fronte al problema religioso. Malgrado tutto, anche gli atei e gli agnostici traevano conforto dalla tenacia con cui un piccolo gruppo di praticanti si ostinava a praticare i riti tradizionali. La loro eliminazione da parte dei nazisti creò un vuoto psicologico enorme.

Più d’uno dei nostri camerati osservava con disdegno e derisione quella qualche decina di ebrei che si raccoglievano, in attesa dello shabbat [= il sabato, giorno festivo dell’ebraismo – n.d.r.], per recitare la preghiera della sera. Altri li guardavano con acredine, perché l’atroce realtà, le orribili tragedie che si svolgevano giorno sotto i nostri occhi non potevano risvegliare un sentimento di gratitudine, né incitare a cantare le lodi del Creatore dell’universo, che aveva lasciato che un popolo di barbari assassinasse e annientasse milioni di innocenti, uomini, donne e bambini, la cui unica colpa era quella di essere nati ebrei, di avere riconosciuto l’onnipotenza di questo Dio, al quale innalzavano le proprie preghiere anche in questo luogo, di aver portato all’umanità il monoteismo. Per questi motivi subivano il massacro. E perché mai, allora, avrebbero dovuto onorarlo? Perché? Perché mai innalzare lodi davanti a questo oceano di sangue ebreo? Implorare Colui che non vuole ascoltare i pianti e le grida dei bambini innocenti, no! E costoro si ritiravano, delusi e amareggiati, in collera con i compagni, che non la pensavano come loro.

Anche altri ebrei, un tempo religiosi, hanno preso le distanze. Già da un pezzo sono freddi nei confronti del loro Dio. Sono delusi della via intrapresa. Non riescono a comprendere come un padre possa consegnare i propri figli nelle mani di sanguinari assassini, nelle mani di coloro che lo dileggiano e si prendono gioco di lui. Non vogliono cercare troppe risposte, per timore di perdere il loro ultimo sostegno, se dovesse svanire il loro estremo conforto. Se ne stanno in disparte, senza interpellare Dio, né rendergli conto. Vorrebbero ancora pregare, aprire i loro cuori, ma non possono. Non vogliono essere falsi, né verso Dio né verso se stessi.

Malgrado tutto ciò, nonostante questo stato d’animo diffuso, c’è un gruppo ostinato di praticanti, che si dà da fare per respingere lo sconforto, per far tacere le proteste che ogni giorno colpiscono il loro cuore e il loro spirito, che vorrebbero il rendi-conto, che chiedono il perché. No! Contro l’evidenza delle cose, persistono nel restare legati ai lacci della fede più ingenua. Senza domandare ragioni, né cercare ragioni. Credono, sono tuttora convinti, e lo dimostrano ogni giorno, che tutto quanto è fatto e commesso contro di noi è voluto da un potere superiore, il cui disegno ci rimane impenetrabile. Che noi, con la nostra povera ragione umana, non possiamo comprendere. Si aggrappano con tutte le loro forze al loro Dio. Sono impregnati di una fede profonda, anche se vedono, avvertono, hanno il presentimento che stanno affogando nell’oceano della loro credenza. E forse, forse, nel più profondo del cuore il dubbio li tormenta, ma essi si tengono saldi, non vogliono perdere il loro ultimo conforto, non vogliono perdere il loro ultimo conforto, non vogliono perdere il loro ultimo sostegno.

Così, in seno a questa famiglia di cinquecento anime [= il Sonderkommando – n.d.r.], credenti, non credenti, amareggiati o indifferenti, si è creato dall’inizio un piccolo gruppo di uomini sempre più numeroso con il passar del tempo, che recita tutte le preghiere giornaliere in minyan [= gruppo di 10 maschi adulti, numero minimo per la preghiera comunitaria – n.d.r.].

Capitava sovente che un camerata non praticante fosse trascinato da questi canti e da queste preghiere. Un suono, il motivo di un canto tradizionale del venerdì sera giungeva sino a lui e lo strappava alla tragica atroce realtà. Le agitate onde dei ricordi lo riportavano al mondo di un tempo. Tornava indietro, nuotava verso gli anni passati. Si rivedeva a casa sua. […]

Io rimpiango i miei fratelli, perché sono miei fratelli, e li rimpiango perché tutta una parte di questa mia esistenza nell’inferno è legata a loro. Giro lo sguardo verso l’angolo dove se ne stavano raccolti in preghiera. Un torpore di morte proviene di lì. Nessuno, non c’è più nessuno. Scomparse le vite, spenti i canti. – Un rimpianto in più, un altro dolore ancora si aggiunge alla mia profonda infelicità. Noi rimpiangiamo i nostri fratelli, perché sono nostri fratelli.

Noi li rimpiangiamo, perché c’è venuta a mancare, ci manca la luce, ci manca il calore, ci manca la fede, ci manca la speranza che proveniva dalla loro presenza.

Con la loro scomparsa, se ne è andata l’ultima consolazione.

S. Gradowski, Sonderkommando. Diario da un crematorio di Auschwitz, 1944, Venezia, Marsilio, 2002, pp. 195-201. Traduzione di A. Schaumann Wolkowicz

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