Capodanno ebraico ad Auschwitz

Rosh Hashanà (il capodanno ebraico) e Yom Kippur (il giorno del Grande Perdono) sono due tra le feste tradizionali maggiormente sentite dagli ebrei, persino da coloro che sono poco osservanti o legati alla sinagoga. Alla fine dell’estate del 1944, in occasione di queste festività, migliaia di ebrei cercarono comunque – all’interno del lager – di celebrarle. Il gesto rabbioso di Wiesel, che sceglie di non rispettare il digiuno previsto per Yom Kippur è il segno della sua rabbia e della sua ribellione.


L’estate era agli sgoccioli. L’anno ebraico stava terminando. La vigilia di Rosh Hashanà, ultimo giorno di quell’anno maledetto, tutto il campo era elettrizzato dalla tensione che regnava nei cuori. Era, malgrado tutto, un giorno diverso dagli altri: l’ultimo giorno dell’anno. La parola ultimo aveva un suono molto strano. Se fosse stato veramente l’ultimo giorno?

Ci distribuirono il pasto della sera, una zuppa assai densa, ma nessuno la toccò: volevamo aspettare a mangiare dopo la preghiera. Sul piazzale dell’appello, circondati dai reticolati elettrici, migliaia di ebrei silenziosi si sono riuniti, il volto stravolto.

La notte scendeva. Da tutti i blocchi altri prigionieri continuavano ad affluire, capaci improvvisamente di vincere il tempo e lo spazio, di sottometterli alla loro volontà. “Chi sei Tu, mio Dio, - pensavo con rabbia – in confronto a questa folla addolorata che viene a gridarTi la sua fede, la sua ira, la sua rivolta? Che significa la Tua grandezza, Signore dell’Universo, di fronte a tutta questa debolezza, di fronte a questa decomposizione, a questa putrefazione? Perché turbare ancora i loro spiriti malati, i loro corpi infermi?”.

Diecimila uomini erano venuti ad assistere alla solenne funzione! Capiblocco, kapò, funzionari della morte.

“Benedite l’Eterno…”.

La voce dell’officiante si faceva appena sentire. All’inizio credetti che fosse il vento.

“Sia benedetto il Nome dell’Eterno!”.

Migliaia di bocche ripetevano la benedizione, si piegavano come alberi nella tempesta.

“Sia benedetto il Nome dell’Eterno!”.

Ma perché, ma perché benedirLo? Tutte le mie fibre si rivoltavano. Per aver fatto bruciare migliaia di bambini nelle fosse? Per aver fatto funzionare sei crematori giorno e notte, anche di sabato e nei giorni di festa? Per aver creato nella sua grande potenza Auschwitz, Birkenau, Buna e tante altre fabbriche di morte? Come avrei potuto dirgli: “Benedetto Tu sia o Signore, Re dell’Universo, che ci hai eletto fra i popoli per venir torturati giorno e notte, per vedere i nostri padri, le nostre madri, i nostri fratelli finire al crematorio? Sia lodato il Tuo Santo Nome, Tu che ci hai scelto per essere sgozzati sul Tuo altare?”.

Sentivo la voce dell’officiante alzarsi, potente e affranta a un tempo, fra le lacrime, i singhiozzi e i sospiri di tutti i presenti: “Tutta la terra e l’universo appartengono a Dio!”. Si fermava a ogni istante, come se non avesse la forza di ritrovare sotto le parole il loro contenuto. La melodia gli si strozzava in gola.

E io, il mistico di una volta, pensavo: “Sì, l’uomo è più forte, più grande di Dio. Quando fosti deluso da Adamo ed Eva Tu li scacciasti dal Paradiso. Quando la generazione di Noè non Ti piacque più, facesti venire il Diluvio. Quando Sodoma non trovò più grazia ai Tuoi occhi, Tu facesti piovere dal cielo il fuoco e lo zolfo. Ma questi uomini qui, che Tu hai tradito, che Tu hai lasciato torturare, sgozzare, gassare, bruciare, che fanno? Pregano davanti a Te! Lodano il Tuo Nome!”.

“Tutta la creazione testimonia la grandezza di Dio!”. In altri tempi il giorno del Nuovo Anno dominava la mia vita; sapevo che i miei peccati rattristavano l’Eterno e imploravo il Suo perdono. In altri tempi credevo profondamente che da uno solo dei miei gesti, che da una sola delle mie preghiere dipendesse la salvezza del mondo.

Oggi non imploravo più. Non ero più capace di gemere. Mi sentivo, al contrario, molto forte. Ero io l’accusatore, e l’accusato, Dio. I miei occhi si erano aperti, ed ero solo al mondo, terribilmente solo, senza Dio, senza uomini; senza amore né pietà. Non ero nient’altro che cenere, ma mi sentivo più forte di quell’Onnipotente al quale avevo legato la mia vita così a lungo. In mezzo a quella riunione di preghiera ero come un osservatore straniero. […]

Yom Kippur. Il giorno del Grande Perdono. Bisognava digiunare? La questione venne aspramente dibattuta. Digiunare poteva voler dire una morte più certa, più rapida: qui si digiunava tutto l’anno, tutto l’anno era Yom Kippur. Ma altri dicevano che dovevamo digiunare proprio perché farlo era pericoloso; dovevamo dimostrare a Dio che anche qui, in questo inferno, eravamo capaci di cantare le Sue lodi.

Io non digiunai. Prima per far piacere a mio padre, che mi aveva proibito di farlo, e poi perché non c’era più nessuna ragione perché digiunassi. Non accettavo più il silenzio di Dio. Inghiottendo la mia gamella di zuppa vedevo in quel gesto un atto di rivolta e di protesta contro di Lui. E sgranocchiavo il mio pezzo di pane. In fondo al mio cuore sentivo che si era fatto un grande vuoto.

E. Wiesel, La notte, Firenze, Giuntina, pp. 68-71. Traduzione di D. Vogelmann

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