Testimonianza di Goti Bauer

La seguente intervista fu condotta tra il 22 giugno 2002 e il 6 novembre 2003, da Daniela Padoan. Nata nel 1927, Goti Bauer fu deportata da Fossoli ad Auschwitz il 16 maggio 1944. Osserviamo che la testimonianza non è del tutto precisa, in un dettaglio, là dove parla di Höss; quando si scoprì la sua relazione con una detenuta ebrea, il comandante non subì alcuna punizione vera e nel 1944 tornò ad essere il responsabile supremo di Auschwitz. Tuttavia è vero - e meritevole di nota - che lo stupro e la violenza sessuale (nel senso più stretto e brutale del termine) furono quasi assenti e non giocarono il ruolo che invece svolsero in altri contesti (come, ad esempio, la Bosnia degli anni Novanta).

Secondo lei donne e uomini hanno fatto una diversa esperienza di Auschwitz?

Non sono sicura di saperle rispondere in maniera precisa. Penso che dipenda molto dalla sensibilità individuale. Sono convinta che ci sono stati degli uomini di carattere molto sensibile che hanno sofferto tanto quanto le donne, come ci sono state donne più fredde, più concrete, che non hanno avuto la sensibilità di altre. Io allora ero una ragazza di diciannove anni e non credo di essermi mai posta questo problema, perché avevo un fratello diciassettenne che, a differenza dei miei genitori, non è stato eliminato immediatamente all’arrivo, Il mio costante pensiero era per lui, che era un ragazzo estremamente sensibile. Temevo che non reggesse la situazione. Per quello che si riferisce al dramma specifico delle donne, ricordo che c’erano donne arrivate ad Auschwitz in stato interessante, senza che i carnefici se ne accorgessero, e che hanno vissuto la gravidanza lì dentro tra paure ancora maggiori delle nostre. In quello stato, hanno sopportato le sofferenze indicibili dovute alla fame, alla fatica e a tutto quello che la deportazione comportava. Mi ricordo di una donna che ha partorito nella baracca dove ero io. Le è stato immediatamente portato via il bambino. Di lei non ricordo cosa sia successo, se l’abbiano mandata subito al gas oppure se sia morta lì. Altro non posso dirle. Per quanto riguarda la femminilità, in quel momento abbiamo vissuto la perdita delle mestruazioni come una liberazione, perché era drammatico non avere niente con cui proteggersi, con cui affrontare la situazione ogni volta che si presentava. E poi, sa? I problemi di vanità non esistevano. Eravamo tutte rasate, tutte vestite di stracci ma, rispetto alla sofferenza morale - quella sì veramente indescrivibile - credo che l’umiliazione per l’aspetto fisico passasse talmente in seconda linea che non ne abbiamo mai fatto un problema. […]

Se non le dispiace, vorrei chiederle ancora del suo arrivo ad Auschwitz. Liliana Segre mi ha parlato dell’umiliazione della nudità come di un trauma indelebile.

Questo è stato sicuramente l’impatto iniziale. Molto traumatico, ma qualsiasi esperienza, per quanto umiliante essa sia, si affronta in maniera meno drammatica se si è in tanti, perché capita contemporaneamente a tutti e allora la si vive con una dignità che ci si autoimpone, come a dire, se sono arrivata a questa situazione la colpa è tua, non mia, sei tu il colpevole, sei tu il responsabile.

A un certo punto ci si rassegna. Capitava ogni volta che si veniva portati alla disinfezione, alla doccia, o anche alle selezioni all’interno del campo, che erano molto frequenti. Spesso, dopo il lavoro, venivano chiuse le baracche, ci si doveva spogliare e subire un’ispezione. Tutte quelle che erano considerate tanto debilitate o sofferenti da non poter più continuare il lavoro venivano eliminate subito e sostituite da nuove arrivate più in forze. Questo essere spogliate, scrutate, osservate dalla commissione di medici incaricata del controllo, era talmente frequente che non gli si dava più importanza. O meglio, io la vivevo come più offensiva per chi la compiva piuttosto che per chi la subiva. Mi creda, di fronte a un camino da cui viene fuori in continuazione una fiamma che sparge attorno un odore acre di carne umana bruciata, che ti invade l’animo prima che le narici, niente più ha importanza; non un’umiliazione di questo tipo, non le botte, non la sofferenza fisica. L’immagine del camino che arde rappresenta la totalità delle emozioni che si possono vivere, superata forse soltanto dalla paura che possa toccare a te. Perché in ogni momento poteva toccare a te. Tutto il resto, nei miei ricordi, era secondario.

Devo dire una cosa che sicuramente le avrà detto anche Liliana, e cioè che, nonostante quello che si crede, noi non abbiamo subìto violenza fisica. Violenza era tutto, lì dentro - la maniera in cui eravamo trattate, le botte, le minacce - ma violenza sessuale non ce n’era. Non per rispetto a noi, ma perché a loro era proibito avere rapporti con chi era considerato di razza inferiore, visto che non volevano inquinare la loro purezza ariana. I rari casi in cui è successo costituiscono le eccezioni che confermano la regola. Ricordo di aver letto che il comandante del campo Rudolph Höss aveva una ragazza ebrea che gli faceva le pulizie in casa. Quando si è saputo che aveva avuto rapporti con lei, è stato destituito, mandato via dal campo con un pretesto di avanzamento di carriera; ma è stato radiato.

Noi questo oltraggio non lo abbiamo subìto. Tutto il resto, dopo la prima, la seconda, la decima delle occasioni in cui abbiamo dovuto esporci così, le assicuro che non rappresentava più niente per noi. Niente. Sa cos’era, nei miei ricordi, quello che mi tormentava di più? Quando stavamo all’appello per ore e ore, di mattina e di sera, di fonte alla baracca e vedevamo la rampa di arrivo sulla quale continuavano a fermarsi nuovi convogli. La gente in fila per la selezione, il mio senso di impotenza, il non poter aiutare, il non poter salvare i bambini. Al nostro arrivo non sapevamo quello che ci doveva succedere, ma quando poi abbiamo cominciato a vedere ogni giorno arrivare gli altri, sapendo che andavano al gas, è stata una sofferenza talmente lacerante… Quella è per me, nei ricordi, la cosa più orribile, più mortificante: non aver potuto salvare nessuno. Non aver potuto aiutare nessuno. Per il resto… il resto era secondario.

D. Padoan, Come una rana d’inverno. Conversazioni con tre donne sopravvissute ad Auschwitz, Milano, Bompiani, 2004, pp. 65-66 e 89-91

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