Testimonianza di Giuliana Tedeschi

La seguente intervista fu condotta tra il 9 ottobre 2002 e il 3 novembre 2003, da Daniela Padoan. Nata nel 1914, Giuliana Tedeschi fu deportata da Fossoli ad Auschwitz il 5 aprile 1944. Le espressioni Lager A e Lager B indicano due settori del campo BI di Birkenau, adibiti a campi femminili.

Nel Lager A venivano fatti esperimenti sulle donne.

Sì, eravamo lì come cavie gratuite, in numero inesauribile. C’era una baracca al cui interno si trovava un reparto dove venivano eseguiti esperimenti sulle prigioniere. La chiamavano il blocco delle esperienze. Lì dentro venivano eseguiti esperimenti sulle prigioniere, soprattutto nelle parti genitali, anche se mi risulta che venissero studiate pure altre situazioni che non avevano un particolare nesso con la riproduzione. Le greche che erano già nel campo da mesi raccontavano di enormi cicatrici sui ventri, di asportazioni dell’apparato genitale, di misteriose iniezioni che forse servivano a indurre la sterilità. Per fortuna non ne ho avuta esperienza diretta, anche se ho corso il rischio di finire là dentro.

Un giorno la capoblocco venne nel settore dove eravamo stipate a passare la quarantena, fitte nelle cuccette come conigli nelle conigliere, e prese il numero di matricola tatuato sul braccio sinistro di quindici persone, tra cui c’ero anch’io. Ci condussero nell’ambulatorio, dove l’esame delle greche si protrasse per tutto il giorno: misurazioni, fotografie, dettagliate visite mediche. Dapprima non capivamo, ma quando qualcuna mi disse che avrebbero condotto su di noi degli esperimenti per indurre la sterilità, mi sentii invadere da una disperazione profonda. Mi sentivo impazzire, e d’improvviso un desiderio lancinante si impossessò di me: volevo un figlio, un altro figlio. Non potevano sottrarmi quella gioia! Il ricordo della maternità, della sua infinita dolcezza, la sensazione di avere un bambino appena nato ancora legato al corpo eppure già indipendente, mi invadeva in ogni fibra.

Scampai per miracolo al blocco delle esperienze, perché ci trasferirono nel campo di lavoro. Eppure pensi che la situazione che vivevamo là dentro era talmente miserevole che alcune donne erano convinte che essere destinate alle esperienze fosse un modo per stare al caldo e ricevere qualcosa in più da mangiare. […]

A un certo punto lei e le altre donne dello Schuhkommando [= squadra di lavoro addetta alle scarpe – n.d.r.] siete state trasferite nel Lager I di Auschwitz?

Birkenau era il campo di sterminio vero e proprio, perché tutti i crematori erano lì, ed era lì che noi alloggiavamo, di ritorno dal lavoro. Ma un bel giorno, dopo un’ennesima selezione, il comando delle scarpe venne trasferito ad Auschwitz I, dove c’erano anche gli uffici e l’amministrazione tedesca. C’erano dei blocchi di nuova costruzione destinati alle donne. Non baracche, ma grandi edifici a due piani, con ampi dormitori provvisti di lavatoi e di gabinetti. Gabinetti veri, con il water e lo sciacquone. Continuavamo a tirarlo, per la felicità di sentire che veniva giù l’acqua! […]

Non si può spiegare cosa fosse il piacere di tirare l’acqua. Lei non può immaginare cos’era una latrina di Birkenau: una lunghissima piattaforma di cemento, alta qualche decina di centimetri, larga in modo che ci stessero due file di buchi, senza niente, con sotto la terra. Non c’era acqua. In più, quando si aveva bisogno di andare in questo posticino, magari si trovava una polacca ariana… Perché, come le dicevo prima, una delle condanne studiatissime dai tedeschi per perseguitarci era proprio quella: poteva succedere che stavi lì seduta in quel frangente e arrivava una di loro, magari con un bastone in mano, e ti strappava dal posto per sedersi lei. A loro era permesso. Potevano concedersi ogni arbitrio, ogni prepotenza.

La promiscuità ha costituito un’ulteriore violenza per le donne ebree?

La mescolanza di ebree, non ebree, politiche, prostitute, è stato un ulteriore modo per perseguitarci, perché faceva sì che l’antisemitismo attecchisse all’interno del Lager. C’erano le russe, le polacche, le donne provenienti da tutto il Nord, le tedesche stesse – le criminali, quelle che portavano il triangolo verde – e poi quelle che portavano il triangolo nero, cioè le asociali, le prostitute. Questa mescolanza di ceti, di culture e di nazionalità era studiatissima, creata apposta perché fossimo perseguitate dalle nostre stesse compagne. Le migliori di tutte erano le prostitute, perché non avevano perso il senso della solidarietà femminile.

Trovare solidarietà là dentro era pressoché impossibile. Se rimanevi persa in quel fantasmagorico universo, era finita. Invece la fortuna era stare nel gruppo dove si aveva possibilità di comunicare. Noi italiane eravamo poche, però stavamo con le francesi, con le belghe, con le greche di Salonicco che parlavano francese; il gruppo è rimasto unito per puro caso, dato che poteva essere disperso in altri comandi [= squadre di lavoro – n.d.r.]. Quella è stata la nostra grande fortuna, perché una cosa che bisogna tenere molto presente è che le donne, in confronto agli uomini, si sono sempre aiutate. Gli uomini no. Non ho mai letto uno scritto di un uomo che abbia insistito sulla solidarietà. Mai. Nella letteratura non si trova mai uno che dica, mi sono salvato grazie alla relazione, allo scambio con l’altro. Tranne forse l’ultimo periodo di Primo Levi, quando rimane con quei due francesi nel campo ormai evacuato. Allora comincia la solidarietà, ma prima non troverà una parola in tutto il libro.

Mi sono sempre fatta una domanda: pare proprio che Levi abbia incontrato Jean Améry; erano nello stesso campo, però non se ne sa niente, non viene mai fuori. Primo lo nomina, ma vada a guardare dov’è questo episodio e vedrà che anche lì sono due estranei, pur essendo nello stesso blocco. D’altra parte poteva accadere che non ci si conoscesse, perché si era parecchi, e bastava non appartenere allo stesso comando di lavoro: le amicizie erano dovute soprattutto all’appartenenza allo stesso comando.

Sembra ritenere che le donne abbiano una maggiore capacità di solidarietà.

Secondo me è indubitabile. Le donne sono maglie, se una si perde, si perdono tutte. Là dentro, almeno, era così; ci sentivamo unite da uno stesso filo di vita, che non doveva recidersi. Forse è perché le donne portano di più il proprio mondo dentro di sé e hanno un maggior desiderio di trovare corrispondenza con l’altro. Credo che questo abbia in qualche modo a che fare con la cura materna. In fondo l’uomo è più isolato, si costruisce lui stesso questo isolamento. Generalmente gli uomini sono chiusi, mentre le donne si raccontano anche particolari minuti, ricordi apparentemente privi di importanza.

E poi c’è la solidarietà più spicciola, ma non meno importante. Noi, per esempio, ci aiutavamo a eliminare i pidocchi. Siamo state il primo convoglio di prigioniere a cui non hanno rasato del tutto i capelli; ce li tagliavano malamente, ma ci lasciavano qualcosa sul cranio. Nei blocchi e nei gabinetti c’era scritto Eine Laus ist dein Tod, un pidocchio è la tua morte [= i pidocchi infatti portano il tifo esantematico o petecchiale – n.d.r.]. Se durante le ispezioni ti trovavano qualche uovo in testa, finivi in crematorio. Era molto importante avere un’amica che ti aiutasse. La domenica, quando non si lavorava, io controllavo i capelli di Olga o di un’altra amica, alla ricerca anche di un solo uovo, e lei faceva lo stesso con me.

E’ una forma di solidarietà anche questa. E poi c’era il legame di tutti i giorni, lo sguardo muto che ti esortava a resistere quando credevi di non farcela più, il dono di una parte della razione quando l’altra ne aveva più bisogno di te… Ho molti ricordi di questo genere, perché sapevamo, quasi d’istinto, che la nostra vita era come una maglia dai punti strettamente intrecciati; una volta reciso un punto, il filo si snoda, si perde.

D. Padoan, Come una rana d’inverno. Conversazioni con tre donne sopravvissute ad Auschwitz, Milano, Bompiani, 2004, pp. 139-140 e 148-151

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