Il sistema Auschwitz

Mordechai Zirulnickij fu deportato dalla Bielorussia ai primi di dicembre del 1942 e passò circa venti mesi nei campi della zona circostante la cittadina di Oswiecim. La sua testimonianza offre un quadro generale della complessità del luogo genericamente noto come Auschwitz: un’area molto vasta, su cui sorgevano tre grandi campi e una cinquantina di sottocampi minori.

Io mi ritrovai tra i 189 uomini selezionati, destinati al lager centrale di Auschwitz. Al nostro ingresso nel lager vedemmo un arco con la scritta: Arbeit macht frei (Il lavoro rende liberi). Nei bagni, a ciascuno di noi furono tatuati sul braccio sinistro un numero e un triangolo. Il mio numero è, come già sapete, 79414. Venivano marchiati con il numero e con il triangolo soltanto gli ebrei lasciati temporaneamente in vita per lavorare. Tutti i detenuti, inoltre, dovevano portare sul vestito, a sinistra sul petto, un segno di riconoscimento: per gli ebrei si trattava di un triangolo rosso cui era sovrapposto un triangolo giallo, in modo che ne risultasse una stella a sei punte (successivamente tale distintivo fu rimpiazzato da un triangolo rosso con una banda gialla). I russi portavano un triangolo nero, i prigionieri politici rosso, i delinquenti comuni verde.

Circolare per il campo senza segno di riconoscimento o con il distintivo al posto sbagliato voleva dire morte certa. Ogni SS poteva fermarti, gettarti a terra, prenderti a calci in faccia o nel petto e mandarti alle camere a gas.

Insieme al mio gruppo passai la prima notte in una delle baracche. Il mattino seguente ebbe luogo una nuova selezione. Tutti gli uomini che non avevano raggiunto i quarant’anni furono inviati al lager di Buna [= Auschwitz III - n.d.r.], il terzo per dimensioni dopo quello di Auschwitz e quello di Birkenau. Erano circa centoquaranta. Noi, i restanti quarantanove, fummo sistemati nel blocco (Baracke) n. 4. Io fui assegnato alla squadra di lavoro che doveva raddrizzare il corso del fiume Sola. Sia il controllo (Appel) che si svolgeva al mattino, prima della nostra partenza, sia quello della sera, che precedeva il nostro ritorno alle baracche, duravano dalle due alle tre ore. Per raggiungere il posto di lavoro dovevamo percorrere circa tre chilometri. Il lavoro era pesante e ci sfiancava. Eravamo scortati da squadre speciali di SS, che ci sorvegliavano, o meglio ci insultavano, anche mentre lavoravamo. Non ci sono parole per descrivere il sadismo delle SS, che ci picchiavano per un nonnulla o anche senza motivo. […]

Il 12 gennaio 1943 la nostra squadra fu trasferita a Birkenau. Ad Auschwitz [= il campo base, denominato anche Stammlager o Auschwitz I - n.d.r.] i tedeschi si sforzavano di conferire al lager l’aspetto di un normale campo di lavoro. All’interno della recinzione era raro vedere il cadavere di un prigioniero. I malati venivano trasportati all’ambulatorio con la barella, come veri pazienti. In realtà, però, passavano direttamente dall’ambulatorio alle camere a gas. D’altra parte, almeno all’inizio della mia prigionia ad Auschwitz, l’esistenza di queste ultime era tenuta nel massimo segreto.

Ma Birkenau [= Auschwitz II - n.d.r.] era completamente diverso. Qui tutto indicava che ci si trovava in un’ "officina della morte". Ovunque, vicino ai blocchi, si vedevano esseri umani morti o agonizzanti. Le baracche erano incredibilmente luride. Nei giorni più rigidi dell’inverno la gente veniva condotta nei bagni freddi e annaffiata con l’acqua gelida. I malati finivano nelle camere a gas; all’inizio settimanalmente, poi con cadenza sempre più ravvicinata. Sfiancati, esausti, i detenuti riuscivano a malapena a trascinare i piedi nella melma che copriva l’intera superficie del lager. Le SS si divertivano a mettere loro i bastoni fra le gambe. Chi cadeva era spacciato. Una sera, mentre tornavo dal lavoro, incrociai due camion con rimorchio pieni di cadaveri.

Non meno crudeli delle SS erano i sorveglianti delle baracche, reclutati per lo più tra i delinquenti comuni. Una volta vidi un sorvegliante tedesco uccidere quattordici miei compagni di baracca. E in altre baracche la situazione non era migliore, semmai peggiore.

V. Grossman - I. Erenburg, Il libro nero. Il genocidio nazista nei territori sovietici 1941-1945, Milano, Mondadori, 1999, pp. 720-. Traduzione di L. Vanni

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