Il tifo e le iniezioni di fenolo

Austriaco di nascita, Hermann Langbein fu arrestato per motivi politici. Dopo essere stato internato a Dachau, nell’agosto 1942 venne trasferito ad Auschwitz, mentre infuriava l’epidemia di tifo. Qui lavorò come scrivano negli uffici dell’ospedale del campo. Entrato in buoni rapporti con il direttore medico dott. Eduard Wirths, cercò di convincerlo a limitare le iniezioni di fenolo con cui erano uccisi tutti i malati giudicati incurabili.

Wirth aveva l’ordine da Berlino di combattere a tutti i costi l’epidemia di febbre petecchiale [= di tifo esantematico - n.d.r.]. L’ordine era stato impartito principalmente per il fatto che il contagio aveva colpito anche la truppa e si temeva che potesse estendersi a tutto il circondario. Questo avevo potuto ricavarlo dalla corrispondenza d’ufficio. Per prima cosa egli cercò di liberare completamente dai pidocchi il Lager: i pidocchi furono disinfestati, il lavaggio della biancheria fu sorvegliato, fu dato l’ordine che venissero fatti continui controlli per i pidocchi. Egli voleva addirittura far fare un manifesto e si consultò con me per il testo.

“Dottore, posso dire ancora qualcosa?”.

“Sì” e intanto mi guarda con aria interrogativa. Oggi mi ha già dettato parecchie cose e nel contempo ha fatto un paio di osservazioni personali chiedendo la mia opinione, poi ha smesso di dettare e mi ha guardato come se volesse dirmi qualcosa ma poi ha continuato a dettare. Adesso se ne sta appoggiato alla sua poltrona. Io siedo dall’altra parte della scrivania con il blocco di stenografia sulle ginocchia.

“La cosa più importante per combattere il contagio è che gli internati nell’ospedale abbiano la sensazione di potersi fidare quando si accorgono di essere ammalati. La febbre petecchiale si diffonde per il fatto che un pidocchio trasmette a una persona sana il sangue di una ammalata. Dunque finché gli ammalati vanno in giro per il Lager non c’è modo di liberarsi dalla epidemia”.

“Naturalmente. Ma allora perché i malati non vanno nell’ospedale? E’ ovvio che devono venire isolati”. Il suo stupore sembra autentico. Ma davvero non sa quello che succede nell’ospedale? Devo andare avanti a parlare?

“Parli chiaro, Langbein”.

Già da molto tempo avevo in mente di parlare chiaro con Wirths. Non penso che mi consegnerebbe alla sezione politica [= alla Gestapo del campo, che aveva sede nel Blocco 11 - n.d.r.], ormai abbiamo stabilito un rapporto umano troppo forte. Oggi si presenta l’occasione giusta.

“Dottore, dovrei parlare di cose che nessun internato nel Lager deve sapere, o perlomeno non dovrebbe mai ammettere di sapere. Devo continuare?”.

“Sì”, e mi guarda con occhi stupiti. Nella stanza cade un pesante silenzio. “Non ha niente da temere”.

“La maggior parte di coloro che vengono nell’ospedale non vengono curati, ma siringati. Questo è noto nel campo. Soprattutto lo sanno tutti quelli sospettati di avere la febbre petecchiale, così quando qualcuno ha la febbre e mal di testa fa di tutto per non dover andare nell’ospedale. Anche quando hanno la febbre a 40° vanno fuori con la squadra e, quando ci riescono, durante il lavoro si fanno nascondere da qualche parte dai loro compagni. In questo modo la malattia rimane all’interno del campo e questa situazione non la può cambiare con degli ordini, signor dottore”. Ci guardiamo ancora negli occhi. Voglio riuscire a capire se è davvero sorpreso… se davvero non sa quello che succede nel Lager.

“Lei prima ha detto che i malati vengono siringati. Che cosa vuol dire?”. La sua domanda mi sembra sincera.

“Gli viene fatta un’iniezione di fenolo al cuore. Ogni giorno qualche dozzina. E talvolta tutti i ricoverati nel blocco infettivo vengono mandati alle camere a gas, con gli infermieri”.

“No!”.

“Alla fine d’agosto l’ho potuto vedere con i miei stessi occhi”.

“Io allora non c’ero ancora”.

“Però ancora oggi si fanno le iniezioni, ogni giorno!”.

Si alza, prende a camminare su e giù a larghi passi. I suoi stivali scricchiolano. Cosa succederà adesso?

“Questi metodi di combattere la febbre petecchiale non porteranno ad alcun risultato. Finché gli internati dovranno aver paura di essere ricoverati nell’ospedale, ad Auschwitz ci sarà l’epidemia”. Si ferma accanto alla stufa. “Il medico del Lager, il dottor Entress, sa del…” si sofferma un attimo, “…delle iniezioni?”.

“Il dottor Entress fa la selezione degli ammalati e il caporalmaggiore Klehr pratica le iniezioni”.

“No!”.

Io mi limito ad annuire ancora con la testa. Nella stanza si fa di nuovo silenzio, un colpo di vento scuote la finestra. “Se almeno ci si potesse fidare di qualcuno!”. Sembra che stia parlando a se stesso.

H. Langbein, Uomini ad Auschwitz. Storia del più famigerato campo di sterminio nazista, Milano, Mursia, 1984, pp. 43-44. Traduzione di D. Ambrosetti

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