La mentalità nazista: indifferenza e razzismo nei confronti dei prigionieri russi

Tra il maggio 1946 e l’aprile 1947, mentre era in carcere, a Cracovia, l’ex-comandante del campo di Auschwitz Rudolf Höss scrisse un lungo memoriale autobiografico. I particolari che vengono descritti sono in genere precisi, persino nella loro durezza. Eppure, Höss non dimostra alcun rimorso ed anzi lascia intendere di condividere ancora pienamente i pregiudizi razziali nazisti. In questo caso, ad esempio, i russi sono guardati con disprezzo e superiorità, come se la causa del loro degrado fisico e morale non fosse il sistema del lager, bensì la loro stessa natura.

Più terribile di tutto fu il periodo di pioggia e fango dell’inverno 1941-1942. I russi riuscivano a sopportare abbastanza bene il freddo, ma l’umidità, l’impossibilità di essere mai asciutti, e per giunta la vita nelle primitive baracche di pietra ancora incompiute, raffazzonate alla svelta, nel primo periodo di Birkenau, compirono il resto, e fecero salire continuamente le cifre della mortalità. Anche il numero di quelli che fino allora avevano resistito, diminuì di giorno in giorno; né i supplementi di cibo potevano più servire a qualcosa. Inghiottivano avidamente tutto quello che potevano afferrare, ma non erano mai sazi.

Una volta, sulla strada da Auschwitz a Birkenau, una colonna di parecchie centinaia di russi all’improvviso ruppe le fila e si precipitò su dei mucchi di patate che si trovavano nei pressi, con tanta decisione e rapidità da sorprendere e travolgere le guardie, che non sapevano più cosa fare. Per fortuna mi trovavo a passare lì in macchina, e potei ristabilire la situazione. I russi razzolavano in mezzo ai mucchi di patate e fu difficile strapparli di lì. Alcuni morirono mentre razzolavano, con le mani piene di patate, o mentre masticavano. Non avevano più nessun riguardo reciproco, il cieco istinto di conservazione non permetteva più loro di provare sentimenti di umanità.

I casi di cannibalismo non furono rari a Birkenau. Io stesso trovai un russo che giaceva in mezzo a mucchi di mattoni, il corpo massacrato da qualche oggetto contundente: gli avevano strappato il fegato. Si ammazzavano a vicenda pur di afferrare qualcosa da mangiare. Un giorno, mentre cavalcavo, ne vidi uno colpire al capo con un mattone un compagno che dietro un mucchio di pietre masticava un pezzo di pane. Nel tempo che impiegai per arrivare all’ingresso, poiché mi trovavo al di fuori del recinto, quello dietro le pietre era già morto, col cranio sfracellato, né mi riuscì di rintracciare il colpevole tra la massa dei russi che si aggiravano là intorno. Mentre si spianava il terreno per le prime costruzioni, scavando trovammo parecchi cadaveri di russi che erano stati uccisi dagli altri e in parte divorati, e poi sotterrati in qualche buca di fango. Soltanto allora ci spiegammo la misteriosa scomparsa di tanti di loro.

Una volta dalla mia abitazione vidi un russo portarsi la sua ciotola per il cibo dietro il blocco accanto al comando e mettersi a raschiarla avidamente. Improvvisamente un altro comparve dietro l’angolo, si fermò un attimo e poi balzò sul primo e lo scaraventò contro i fili ad alta tensione; quindi fuggì con la ciotola. La sentinella della torre aveva assistito anch’essa al fatto, ma non riuscì a sparare in tempo sul fuggiasco. Chiamai immediatamente al telefono il Blockführer di servizio, feci togliere la corrente al filo e mi recai in persona nel campo per rintracciare il colpevole. Ma il russo contro il filo ormai era morto, né fu possibile trovare l’altro.

Non erano più uomini: erano diventati delle bestie preoccupate soltanto del cibo. Dei 10 000 prigionieri russi e più, che dovevano rappresentare il nerbo delle forze addette alla costruzione del campo di Birkenau, nell’estate ’42 ne erano rimasti in vita soltanto alcune centinaia, che costituivano il fior fiore della massa. Lavoravano in modo eccellente e venivano spostati dovunque, come unità lavorative volanti, quando c’era da ultimare rapidamente un lavoro. Ma non potei mai liberarmi dal pensiero che fossero sopravvissuti a spese dei loro compagni, perché erano più aggressivi e privi di scrupoli, più duri.

R. Höss, Comandante ad Auschwitz. Memoriale autobiografico di Rudolf Höss, Torino, Einaudi, 1985, pp. 104-105. Traduzione di G. Panzieri Sajna. Prefazione di P. Levi

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