Le gerarchie interne ai prigionieri come strumento di potere

Nato a Vienna nel 1912, Hermann Langbein partecipò alla guerra di Spagna, con le Brigate Internazionali, prima di essere catturato dai nazisti in Francia, dove aveva cercato rifugio. La pratica di introdurre una gerarchia all’interno dei prigionieri risale alle origini stesse del lager nazista. Langbein ne vide in azione i risultati e le conseguenze, prima a Dachau, poi ad Auschwitz, ove fu internato nel 1942.

In linea di principio tutti i prigionieri avevano l’obbligo di lavorare. Essi erano riuniti in squadre di lavoro denominate Arbeitskommando che erano guidate dai cosiddetti Kapos: le squadre più numerose avevano anche sottocapi e capi superiori. Essi – che nel gergo dei campi di concentramento erano soprannominati Binderträger, cioè quelli che portano la fascia, in quanto la loro funzione era indicata su una fascia che portavano sul braccio sinistro – erano esonerati dall’obbligo del lavoro. Con il tempo essi acquisirono una posizione di totale, spesso incondizionato potere nei confronti dei loro sottoposti, ma erano anche tenuti a render conto qualora nel loro Lager, blocco o squadra, ci fosse qualcosa che, a giudizio della direzione del Lager, non era a posto.

Ecco un episodio, non certo unico, che sta a dimostrare come questo sistema dovesse funzionare secondo le volontà delle SS. Un giorno il comandante del Lager si era lamentato perché la disciplina nel campo si era ovunque allentata. Dopo l’appello serale fece convocare tutti i Kapos e li fece punire con cinque bastonate ciascuno. Il suo commento alla punizione fu: "E adesso datevi da fare affinché le squadre marcino meglio quando entrano al lavoro". Naturalmente non pochi Kapos si rivalsero di queste bastonate sui loro sottoposti. I Kapos non si dovevano solo preoccupare che gli internati marciassero nel modo più militaresco possibile: le angherie tipiche delle caserme prussiane erano spinte all’eccesso, al punto che i Kapos venivano ritenuti responsabili anche del compito assegnato alle loro squadre. Se la loro prestazione non corrispondeva a quanto prescritto, i Kapos, secondo la testimonianza di uno di loro, il tedesco Willi Brachmann, dovevano andare a finire sul "cavalletto di punizione". "Questo fu ordinato affinché noi ci dessimo da fare perché il lavoro venisse fatto nel modo migliore":   così Brachmann spiegò il motivo di quest’ usanza.

Richard Bock è uno dei pochissimi appartenenti alle SS disposto a fare dichiarazioni. Quando fu chiamato a deporre come testimone al processo di Francoforte egli preparò la sua deposizione per iscritto. Nel manoscritto, fra l’altro, riferiva che quando qualcuno si rifiutava di andare al lavoro forzato i Kapos e i sottocapi dovevano intervenire picchiando. Se poi arrivava un comandante di squadra o di blocco la situazione precipitava: "Kapo, vieni qui!" e giù un colpo. "Non sei capace di picchiare meglio?" e a questo punto evidentemente il Kapo doveva picchiare per salvarsi la vita.

E ancora: "Kapo, vieni qui! Fallo fuori!"e il più delle volte, se non picchiava abbastanza, il Kapo si prendeva anche qualche calcio in faccia con la punta dello stivale. D’altra parte la direzione del Lager concedeva a "quelli che portavano la fascia" privilegi che un semplice internato non avrebbe neppure osato sognare. Essi godevano di vitto, alloggio e vestiario in misura preferenziale e potevano arrogarsi dei diritti che li collocavano molto al di sopra della grigia e informe massa degli internati. I sottoposti non avevano alcuna possibilità di lamentarsi o protestare contro un Kapo il quale aveva anzi la facoltà di infliggere punizioni a suo piacimento e perfino uccidere. Quando uno di questi "funzionari" degli internati dava la comunicazione di una "uscita a causa di decesso" normalmente nessuno gli chiedeva il motivo del decesso. Ci si preoccupava solo di controllare che il numero del deceduto corrispondesse, che l’appello fosse giusto e questo era tutto quello che interessava alla direzione del Lager.

In questo modo veniva creata una gerarchia fra i prigionieri che aveva lo scopo di agire come longa manus della direzione del Lager portando la paura anche nel più remoto angolo del campo, in modo tale che producesse il suo effetto anche quando – per esempio di notte – nessun appartenente alle SS si trovava nel Lager. Il modo per rendere "quelli che portavano la fascia" un docile strumento delle SS era molto semplice: se si rendeva colpevole della minima mancanza nei confronti della direzione del Lager o dei compiti che gli erano stati assegnati, ogni Kapo o capo camerata poteva immediatamente essere privato della sua fascia ed essere ricacciato al fondo della gerarchia del campo. Non appena perdeva la fascia, anche la protezione della direzione Lager, egli veniva praticamente consegnato alla vendetta di coloro che aveva vessato. Spesso era quindi sufficiente minacciare di togliergli questa protezione per asservirlo completamente ai voleri delle SS. […]

Le diversità fra i prigionieri non venivano solo intenzionalmente indicate e rese evidenti a tutti: le distinzioni e i contrasti fra i diversi gruppi venivano anche sottolineati e inaspriti. Il comandante del Lager, Höss, ne spiegò il motivo in questi termini:

"Nessuna direzione di Lager, per quanto forte ed energica, sarebbe riuscita a tenere imbrigliate e a dirigere migliaia di internati se i contrasti interni dei vari gruppi non fossero stati strumentalizzati a questo fine. Quanto più numerosi erano i motivi di ostilità fra loro e le loro lotte di potere interne, tanto più facile diventava gestire il campo".

H. Langbein, Uomini ad Auschwitz. Storia del più famigerato campo di sterminio nazista, Milano, Mursia, 1984, pp. 19-21. Traduzione di D. Ambrosetti

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