La prigione del campo, nella testimonianza di una SS

Pery Broad nacque nel 1921 a Rio de Janeiro, ma fu condotto in Germania dalla madre, che era tedesca. Dopo aver militato nella Hitler-Jugend, si arruolò nelle SS nel 1941, ad appena vent’anni; l’anno seguente fu inviato ad Auschwitz, dove lavorò al servizio della cosiddetta Sezione politica, nella prigione del campo principale (Blocco 11). Nel 1965, al processo di Francoforte sul Meno, fu condannato a quattro anni di carcere.

Chiunque conosca il vecchio campo di Auschwitz non può ignorare che cosa significasse il nome del Blocco 11. Nel suo aspetto esteriore non si distingueva assolutamente dagli altri blocchi. Qualche scalino di pietra conduceva all’entrata. Una semplice placca nera che riportava la cifra 11 era appesa a destra, accanto alla porta a vetri, dalla quale si poteva intravedere un lungo corridoio che attraversava tutto l’edificio. Contrariamente agli altri blocchi del campo, la porta del Blocco 11 era sempre chiusa. Se si suonava il campanello, una sentinella SS appariva e i suoi passi risuonavano lugubremente per tutto l’edificio deserto. Con aria diffidente, da una piccola finestra, essa squadrava lo straniero che aveva suonato, lo riconosceva e infine lo lasciava entrare, se era davvero necessario. Si distingueva allora, nella penombra del corridoio, una solida grata, munita di una porta a sbarre, che isolava la parte posteriore dell’edificio. Ma già prima di entrare all’interno, si provava un senso d’angoscia nel percepire che le finestre del blocco erano praticamente del tutto murate e non lasciavano passare che un sottile filo di luce, non più largo di una mano. Persino le finestre delle cantine erano solidamente sbarrate. In certi punti, all’altezza degli spiragli delle cantine, era possibile notare delle strane casse di latta, la cui destinazione era difficile da precisare.

Il cortile tra il Blocco 11 e il Blocco 10, parallelo ad essi, sui due lati era protetto dagli sguardi indiscreti dei curiosi per mezzo di alti muri. L’entrata al cortile era protetta da una solida porta in legno, munita d’uno spioncino che poteva essere chiuso dall’interno. Se veniva osservato di nuovo che le finestre del blocco erano mascherate con delle latte, ci si convinceva proprio del ruolo speciale svolto da questo cortile. […]

Grazie alla sua brutalità senza scrupoli, al suo amor proprio e al suo orgoglio morboso, nonché grazie alla sua ipocrisia proverbiale, Grabner [= Max Grabner, Untersturmführer delle SS, responsabile della Sezione politica, cioè dell’azione della Gestapo nel campo di Auschwitz – n.d.r.] era divenuto il personaggio più importante del campo di Auschwitz. Persino il comandante del campo, lo Sturmbannführer delle SS Höss, che non era inferiore a lui né per crudeltà sadica, né per mancanza di scrupoli, evitava il più possibile le controversie con questo presuntuoso funzionario della Gestapo.

Il sabato mattina, d’abitudine, si svolgeva una riunione. Grabner approfittava di solito del fine settimana – come egli stesso cinicamente diceva – per ripulire i bunker [= le cantine seminterrate, adibite a celle – n.d.r.]. Dopo la riunione, tutto il reparto deve recarsi al campo, al Blocco 11. A dire il vero, tre o quattro uomini sarebbero sufficienti, ma Grabner preferisce riunire tutti i suoi subordinati perché si sente a suo agio quando ha un seguito numeroso.

Al Blocco 11, nell’ufficio, si attende l’arrivo del Lagerführer, l’Hauptsturmführer Aumeier. Questi si fa attendere un certo tempo, per darsi importanza; infine, il piccolo bavarese entra nella stanza con passo pesante. La sua voce stridula lascia intuire che è ubriaco. La brutalità che si disegna sul suo viso, oltre che negli occhi, gli basta come biglietto da visita. Si gloria di essere amico personale di Himmler e di possedere il distintivo d’oro della NSDAP. E’ seguito con premura dall’ufficiale di collegamento, l’Unterscharführer Stiwitz. In seguito arriva anche un medico SS. Il custode del bunker e alcuni Blockführer completano la commissione, che infine scende nelle cantine per procedere alla pulizia.

Su un largo corridoio diviso, come al piano superiore, da una grata robusta, munita di una porta a sbarre, si aprono lateralmente dei piccoli spazi di passaggio; su ognuno di questi, si danno da tre a cinque celle, le cui pesanti porte di legno di quercia sono munite di rinforzi in acciaio e di spioncini. L’aria sotto la volta delle cantine è così pesante che si respira appena. Insieme al rumore soffocato delle voci, dietro le porte delle celle, la luce accecante delle lampadine genera un contrasto violento tra il pavimento dipinto di nero e i muri imbiancati di calce, mentre le teste di morto luccicanti sui cappelli delle SS creavano un’atmosfera lugubre. Il sorvegliante apre la porta della prima cella con un grosso mazzo di chiavi. Poi deve spostare due catenacci di ferro. L’evasione da questa prigione – che per di più si trova all’interno di un campo di concentramento – recintato da un reticolato ad alta tensione, è assolutamente impossibile.

Auschwitz vu par les SS. Rudolf Höss, Pery Broad, Johann Paul Kremer, Oswiecim, Le Musée d’Etat d’Auschwitz-Birkenau, 2004, pp. 105-107

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