Le fotografie scattate nei pressi del Crematorio V, nell'estate 1944
Ci sono due modi di prestare disattenzione, per così dire, a immagini del genere: la prima consiste nel renderle ipertrofiche, nel volerci vedere tutto. Consiste, in altre parole, nel farne altrettante icone dell’orrore. Per far questo, bisognava che i cliché originali fossero resi presentabili. E a tal fine non ci si pensò due volte a trasformarli completamente. Così, la prima fotografia della sequenza esterna [= quella che ritrae un gruppo di donne, nude, che stanno per entrare nella camera a gas del Crematorio V – n.d.r.] ha subito tutta una serie di ritocchi: l’angolo inferiore destro è stato ingrandito; poi ortogonalizzato, in modo tale da rendere più normale un’inquadratura che non lo era affatto; e infine è stato ritagliato e isolato dal resto (ridotto a scarto). Ancora peggio, i corpi e i volti delle due donne in primo piano sono stati ritoccati, un volto lo si è inventato, e i seni sono stati addirittura ringiovaniti… Questa sofisticazione aberrante – non so chi ne sia l’autore e quali furono le sue intenzioni – rivela una volontà folle di dare volto a ciò che nell’immagine è solo movimento, scompiglio, evento. […]
L’altro modo di prestare disattenzione consiste invece nel ridurre e asciugare l’immagine. Consiste, in altre parole, nel vedervi solo un documento dell’orrore. Per quanto strano possa sembrare in un contesto – la disciplina storica – che di solito rispetta il suo materiale di indagine, le quattro fotografie del Sonderkommando sono state spesso trasformate allo scopo di risultare più informative di quanto lo fossero originariamente. È un altro modo di renderle presentabili e di restituire loro un volto… Si nota, ad esempio, che le immagini della prima sequenza [= le fotografie che furono scattate dall’interno della camera a gas e che ritraggono un gruppo di uomini del Sonderkommando intenti a bruciare all’aperto dei cadaveri – n.d.r.] vengono regolarmente reinquadrate. C’è senz’altro, in questa operazione, una – buona e inconscia – volontà di avvicinarsi isolando quanto c’è da vedere, purificando la sostanza dell’immagine dal suo peso non documentario.
Ma, reinquadrando queste fotografie, si effettua una manipolazione al tempo stesso formale, storica, etica e ontologica. La massa nera che circonda la visione dei cadaveri e delle fosse, questa massa in cui nulla è visibile restituisce, in realtà, un segno visivo altrettanto prezioso della rimanente superficie impressionata. Questa massa in cui nulla è visibile è lo spazio della camera a gas: la camera oscura in cui è stato necessario ritirarsi per porre in luce il lavoro del Sonderkommando, fuori, al di sopra delle fosse di incinerazione. Questa massa nera ci restituisce dunque la situazione stessa, lo spazio di possibilità, la condizione di esistenza delle fotografie. Sopprimere una zona d’ombra (la massa visiva) a beneficio di una luminosa informazione (l’attestazione visibile) equivale inoltre ad affermare che Alex avrebbe potuto tranquillamente scattare le sue foto all’aria aperta. Significa disprezzare il rischio da lui corso e la sua astuzia di resistente. Reinquadrando queste immagini, senza dubbio si è pensato di preservare il documento (il risultato visibile, l’informazione distinta). Ma se ne è soppressa la fenomenologia, tutto ciò che faceva di queste immagini un evento (un processo, un lavoro, un corpo a corpo).
Poiché questa massa nera non è altro che il segno dello statuto ultimo secondo il quale bisogna guardare e comprendere queste immagini: lo statuto di evento visivo. Parlare qui di gioco di ombre e luci non è una fantasia da storico dell’arte formalista: significa invece nominare l’elemento portante di queste immagini. Esso appare come soglia paradossale tra un interno (la camera della morte che protegge, in quel momento, la vita del fotografo) e un esterno (l’ignobile incinerazione delle vittime appena gasate). Esso offre l’equivalente dell’enunciazione nella parola di un testimone: interruzioni, silenzi, tono affaticato. Quando si dice dell’ultima fotografia [= quella sbagliata, tutta nera e priva di immagini riconoscibili – n.d.r.] che essa è semplicemente senza utilità – storica, beninteso – si dimentica tutto ciò di cui fenomenologicamente essa testimonia a proposito del fotografo: l’impossibilità di inquadrare, il rischio corso, l’urgenza, la corsa forse, la goffaggine, l’accecamento di fronte al sole, il fiato corto. Questa immagine è, formalmente, senza respiro: pura enunciazione, puro gesto, puro atto fotografico senza obiettivo (senza orientamento, senza alto né basso) che ci dà accesso alla condizione di urgenza nella quale furono strappati questi quattro lembi di reale all’inferno di Auschwitz. E anche questa urgenza fa parte della storia.
G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, Milano, Raffaello Cortina, 2005, pp. 54-56. Traduzione di D. Tarizzo

