Ambiguità e limiti del museo statale di Auschwitz

Nel 1947 il governo polacco decise di istituire il campo museo di Auschwitz. Nelle intenzioni degli organizzatori del museo, per lo più sopravvissuti, la scelta di Auschwitz tra i sei campi della morte [= Chelmno, Belzec, Sobibor, Treblinka, Majdanek e Auschwitz – n.d.r.] costruiti in Polonia era dovuta a motivi logistici e simbolici. Auschwitz era il più grande campo di concentramento e di sterminio costruito dai nazisti, l’esempio perfetto dell’universo concentrazionario tedesco; oltre al campo base (Stammlager Auschwitz), comprendeva un campo per prigionieri politici, uno di quarantena e un campo di punizione.

Nella seconda metà del ’41 venne ampliato con la costruzione del campo di Monowice, destinato ai detenuti che lavoravano nelle fabbrica tedesca IG Farben, mentre in ottobre fu iniziata la costruzione del campo di sterminio di Birkenau sulle rovine del villaggio di Brzezinka. Qui le prime due camere a gas, il bunker I o cascina rossa, e il bunker II, o cascina bianca, funzionarono fino alla primavera del 1943, quando entrarono in funzione i quattro grandi crematori. La creazione del museo doveva servire a conservare il ricordo di un luogo che, per il numero delle vittime e le sofferenze ad esse causate, era stato la più grande fabbrica di morte di tutti i tempi: quasi 2 000 000 di ebrei [= cifra non accettata da tutti gli storici; secondo alcuni, il numero degli ebrei morti ad Auschwitz fu decisamente inferiore – n.d.r.] e 21 655 zingari di tutta Europa morirono nelle camere a gas di Birkenau, 150 000 polacchi e 11 780 prigionieri sovietici furono uccisi nel campo di concentramento di Auschwitz.

La decisione di trasformare Auschwitz in un museo rispondeva anche alla necessità di sottrarre il campo al pericolo di desacralizzazione, dovuto all’opera degli sciacalli che, dopo la fine della guerra, portarono via dal campo materiali da costruzione e quanto rimaneva degli oggetti di qualche valore. I sopravvissuti del campo di Auschwitz-Birkenau sottolineavano l’importanza del fattore tempo nell’opera di conservazione della memoria. Dopo la fine del conflitto, la memoria della Shoah era molto viva nei ricordi e nelle testimonianze degli abitanti della campagna circostante che avevano lavorato alla costruzione della rampa del campo di sterminio, sulla quale veniva attuata la prima selezione degli ebrei, o nella IG Farben, o all’interno del campo stesso. I loro racconti erano sconvolgenti, ma molto chiari: allora si sapeva cosa succedeva a Birkenau, “nell’inferno”, diverso dagli altri sottocampi, perché “lì si uccideva la gente”. Ma, dopo il pogrom di Kielce, tra la gente aumentava la tendenza ad autocensurare la memoria dell’occupazione e delle sofferenze che aveva portato.

La scelta di adibire Auschwitz-Birkenau a museo poneva gli organizzatori di fronte a un triplice compito: farne il luogo della memoria della Shoah, ma anche del martirio polacco e delle altre nazionalità e più in generale il simbolo della più grande tragedia dell’umanità. Contrariamente alle premesse però, la sistemazione del campo attuata alla fine degli anni ’40 trasmise solo una parte della memoria di cui era depositario. Il museo venne infatti collocato all’interno di Auschwitz I, mentre i crematori, e con essi il campo di Birkenau, furono lasciati in abbandono. Il campo di Auschwitz fu riorganizzato completamente, in modo da comprendere al suo interno tutto il sistema che, nella realtà, era distribuito in diversi luoghi. Per questo fu necessario costruire ex novo, nella parte nordorientale del campo un crematorio del tutto simile a quelli che avevano funzionato nella vicina Birkenau. Tutto venne ricreato con estrema precisione, dal camino alle bocche d’ingresso dello Zyclon B.

Questa opera di inganno del visitatore venne estesa a tutto il percorso della visita del campo. Nella nuova versione, si accedeva al campo dalla famosa porta con la scritta Arbeit macht frei che nel campo originale era un accesso secondario e che, comunque, nessun ebreo, che arrivava direttamente a Birkenau, vide mai. All’interno del campo il processo di spostamento degli ebrei dal luogo dove venivano sterminati continuava nei blocchi 4 e 5 dove vennero sistemati gli oggetti appartenuti alle vittime; montagne di capelli, di occhiali, di valigie.

Secondo gli organizzatori, la decisione di concentrare tutta la memoria ad Auschwitz era dovuta a motivi logistici: il campo base era conservato perfettamente, mentre Birkenau era solo una distesa di campi, dai quali sbucavano i camini dei crematori [= particolare inesatto, in quanto le ciminiere dei crematori furono distrutte; a sbucare sono i camini delle stufe che fornivano un po’ di calore alle baracche di legno, smontate o distrutte subito dopo la fine della guerra – n.d.r.] e i resti delle baracche di legno bruciate dai nazisti in fuga. Inoltre, la concentrazione del museo in alcuni padiglioni conferiva al messaggio che si voleva trasmettere una potenza maggiore di quella che avrebbe avuta se l’esposizione fosse stata distribuita in un grande spazio. L’ingresso dal sinistro cancello con la scritta in tedesco doveva rafforzare la sensazione di essere introdotti in uno spazio in cui cessavano di funzionare le norme dell’umanità.

L’aspetto più rilevante del museo di Auschwitz però non era quello relativo alla memoria dello sterminio, ma al messaggio ideologico che si voleva trasmettere. “A Auschwitz”, veniva ripetuto ai visitatori attraverso le iscrizioni e le immagini che illustravano lo sterminio, sono morte “la nazione polacca e altre nazioni”, entrambe vittime dello stesso nemico, il fascismo. Così, del resto, era scritto nel testo della legge che, nel 1947, aveva istituito il museo. Gli edifici dell’esposizione generale più visitati erano quelli che comprendevano l’illustrazione dello sterminio, attraverso mappe e fotografie, e gli oggetti dei prigionieri. Né la disposizione degli oggetti, né le iscrizioni spiegavano la differenza tra vittime ebree e non ebree. Al contrario tutto era sistemato per dare al visitatore la sensazione di trovarsi in un luogo in cui era stata uccisa della gente.

Attraverso l’anonimato delle vittime si puntava a fare della Shoah una parte integrante di un fenomeno più vasto: lo sterminio dei civili di tutte le nazionalità da parte di un preciso sistema politico. Tutte le popolazioni erano vittime allo stesso modo della furia del nazismo, erede del capitalismo e dell’imperialismo. Quella lettura era stata diffusa per la prima volta alla fine della guerra dal film girato dai tecnici dell’Armata rossa dopo il loro ingresso nel campo di Auschwitz: le immagini delle vittime emaciate, delle montagne di oggetti ritrovati, interrotte da spezzoni di filmati nazisti, che mostravano la cacciata di centinaia di persone nude verso la morte, e il commento fuori campo che ripeteva il paese di provenienza delle vittime e la cifra di quattro milioni di esecuzioni, aveva fissato nella memoria degli spettatori l’idea dello sterminio di persone di tutte le nazionalità e della sua origine, il fascismo, ultima fase del capitalismo.

Così, anziché divenire un luogo della memoria, il campo museo di Auschwitz fu trasformato in uno strumento di propaganda e di legittimazione del nuovo potere, basato sull’antifascismo e l’unità nazionale. Nella seconda metà degli anni quaranta, la tendenza a diluire la presenza degli ebrei all’interno della nazione polacca divenne un fenomeno comune nella cultura della Polonia. A scuola le giovani generazioni imparavano dai libri di storia che la Polonia era un paese abitato esclusivamente dai polacchi, divisi in due classi, la borghesia e il proletariato. Insieme alla parola ebreo scomparvero dai manuali scolastici anche le parole riguardanti l’antisemitismo, il sionismo e la Shoah. Nei capitoli riguardanti la seconda guerra mondiale gli autori dei testi facevano riferimento ai polacchi o agli slavi, rinchiusi nei campi di concentramento, o si servivano della più generica parola persona quando riportavano il numero delle vittime dello sterminio nazista.

C. Tonini, Operazione Madagascar. La questione ebraica in Polonia 1918-1968, Bologna, CLUEB, 1999, pp. 229-232

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