Uso pubblico della storia e politiche della memoria

Istituzionalizzazione, storicizzazione e sacralizzazione della memoria

Si parla di uso pubblico della storiografia quando i risultati di una ricerca storica vengono usati in qualsiasi modo per produrre effetti di qualsiasi tipo. Il caso più eclatante è quando si determina un passaggio di elementi dalla storiografia alla memoria ufficiale. O quando la politica “istituzionalizza” in commemorazioni gli esiti di una verità storica facendoli diventare “memoria pubblica”.

( cfr N. Gallerano, Le verità della storia. Scritti sull’uso pubblico del passato, Manifestolibri-Roma-1999)

La storicizzazione è contemporaneamente un processo e un risultato e ha, fra i tanti fattori metodologici fondamentali, soprattutto la distanza, l’interpretazione e la soggettività; in altri termini la prospettiva storica deve prendere le distanze dal suo oggetto; deve porsi in atteggiamento ricostruttivo-interpretativo; deve portare ad una ri-costruzione condivisa, intersoggettiva e multifocale del passato. E’ evidente dunque che la storia non sacralizza le memorie, in quanto le colloca, attraverso l’interpretazione, nel contesto di un quadro generale, frutto della ri-costruzione storica. La storia, per suo statuto, si sforza di de-sacralizzare tutte le testimonianze e gli oggetti di trasfigurazione mitopoietica. La storia struttura un tempo “oggettivo” basato sulla sola e pura logica della ri-costruzione storiografica, che va oltre tutte le soggettività delle memorie e tutte le prospettive individuali. Dunque, i due universi simbolici e culturali, i due modelli di storicità generati dalla storia e dalla memoria possono agire con efficacia e produttività se vengono mantenuti rigorosamente distinti.

La storiografia usa le memorie come base documentaria per realizzare le sue ricostruzioni, spogliando le memorie delle loro connotazioni valoriali, sottoponendole al vaglio critico. La storiografia compie costantemente una sorta di de-sacralizzazione delle memorie.

E’ accaduto spesso però, ed accade ancora sistematicamente, che Gruppi, Istituzioni e Stati abbiano conformato, addirittura plasmato, la loro vita pubblica e le loro azioni collettive in funzione della loro storia o della loro memoria. Abbiano cioè eretto una parte della loro storia/memoria ad elemento costitutivo e fondante della loro identità  e dunque abbiano agito sul piano politico prevalentemente in funzione di quella storia/memoria. Ciò significa che la presenza o meno di  alcune storie/memorie nel tessuto culturale e nella strutturazione della dimensione identitaria, possono risultare determinanti e condizionanti proprio perché hanno effetti nel tempo presente e nel tempo futuro. Ciò è dovuto al fatto che le politiche della memoria messe in opera da gruppi e istituzioni risultano spesso rivolte al passato; ma possono essere anche rivolte al futuro e comportare quindi un fattore di mobilitazione e di proiezione nel futuro, cioè essere elementi costitutivi di un progetto politico che si vuole realizzare. Tutto dipende da tipo di progetto politico che si vuole costruire ed implementare: se si ricerca un orizzonte di democrazia, pluralismo e confronto prevarrà la dimensione multiculturale, il relativismo cognitivo e contenutistico, la dimensione identitaria quale frutto di ibridazioni e contaminazioni; se si persegue una presunta dimensione identitaria ipostatizzata, e dunque si ha bisogno di conformismo, prevarrà la forzatura ideologica e uniformante. In questo ultimo caso, il rischio è che si produca una tirannia del passato sul presente, per l’applicazione di dispositivi memoriali paralizzanti e ossessivi. Ciò è dovuto principalmente al fatto che diventa necessario costruire istituzioni che hanno il compito di coltivare quella memoria, che si traduce in un imperativo, che hanno lo scopo di trasmetterla nella maniera dovuta, di irreggimentare gli individui e di trovare le risorse per realizzare il compito comandato dalla memoria. L’identità individuale - e poi collettiva- è infatti una componente fondamentale della memoria, il fulcro attorno al quale ruotano le politiche della memoria dello Stato-Nazione, di stampo ottocentesco che, proprio per affermare la propria forza, costruisce un’identità collettiva forzando le memorie individuali, particolari, locali o etniche verso quella memoria collettiva, esercitando un controllo ferreo sui linguaggi, sulle narrazioni pubbliche, sulla selezione e poi sulla monumentalizzazione di fatti, protagonisti, eventi del passato che concorrono a costruire questa identità. In pratica, come ci ricorda Gallerano, si tratta di un sapiente ed orchestrato uso pubblico della storia e della memoria, perché nella memoria pubblica sono accolti elementi storiografici ritenuti essenziali per rafforzare l’identità collettiva; e nella storia ufficiale frammenti memoriali ugualmente essenziali per il processo identitario nazionale. Una trasfigurazione ideologica e mitopoietica che seleziona gli “oggetti storici” cui riconoscere e attribuire un valore fondante e imprescindibile per una narrazione pubblica volta a sacralizzare ed istituzionalizzare l’identità collettiva, rimuovendo e cancellando, nelle forme di autorappresentazione e nei rituali nazionali, ciò che è da dimenticare e relegare nell’oblìo. Una religione prevalentemente laica, che ha nella nazione i suoi riti, i suoi sacerdoti, i suoi sacrifici, i suoi calendari, le sue festività e i nemici da combattere e da sopprimere. Questa religione civile o memoria pubblica rappresenta un caso significativo di uso pubblico della memoria e dei risultati della storiografia ed è ormai assodato che lo Stato-Nazione- il principale promotore/attore di questa religione civile costruita ed  oggetto di insegnamento e propaganda- ha ereditato una buona parte del linguaggio simbolico rituale delle emozioni e dei valori utilizzato, negli apparati e nell’universo simbolico, dalla religione tradizionale.

Illuminanti,  ancora una volta, le parole di De Luna:

“La memoria pubblica è un patto in cui ci si accorda su cosa trattenere e cosa lasciar cadere degli eventi del nostro passato. Su questi eventi si costruisce l’albero genealogico di una nazione. Sono i pilastri su cui fondare i programmi di studio per le scuole, i luoghi di memoria, i criteri espositivi dei musei, i calendari delle festività civili, le priorità da proporre nella grande arena dell’uso pubblico della storia, le scelte sulla base delle quali si orientano tutti i sentimenti del passato che attraversano la nostra esistenza collettiva. I fondamenti di quel patto cambiano a seconda delle varie fasi che scandiscono il processo storico di una nazione” ( G. De Luna, op.cit)

Nel nostro paese in  due periodi storici in particolare  la costruzione di una religione civile si dispiega in tutta la sua potenza di macchina di propaganda, produttrice di consenso e di ideologia istituzionale al servizio del regime di turno: il periodo dell’unificazione e il periodo del fascismo.

Memoria collettiva e committenti della memoria

Al centro di queste questioni ritroviamo sempre la costruzione, la mediazione, la funzione della “memoria collettiva”. Perché è evidente che, se il soggetto del ricordo  e della memoria è sempre il singolo individuo, tuttavia, sulla scia delle ricerche del sociologo francese M. Halbwachs, si può affermare che ciò che il singolo ricorda porta impresso il marchio del contesto sociale di appartenenza e della comunità che costruisce il quadro dei riferimenti culturali e simbolici di quel singolo individuo; così come porta impressa l’impronta della fede religiosa o politica professata e della generazione di cui fa parte. Si può dire  allora che, per quanto la memoria individuale confluisca in quella collettiva, quest’ultima non è la semplice sommatoria di tutte le singole memorie individuali. Al contrario, si può fondatamente sostenere che la memoria collettiva “impronta” ed “influenza” quella individuale al punto che nessun individuo è in grado di ricostruire la propria memoria senza ricorrere alla memoria sociale o collettiva.

In estrema sintesi “che condizionamenti ed interessi congiunturali di gruppi sociali possono influire nella selezione dei ricordi e sulla costruzione della memoria collettiva”(cfr. M. Halbwachs, La Memoria collettiva, tr.it. Milano,1987)

A questo proposito, ci dice molto sui committenti delle memorie quanto abbiamo potuto osservare in questo decennio che ci separa dall’attacco alle Torri Gemelle  dell’11 settembre 2001: un evento a lungo dominante nella  memoria collettiva mondiale, commemorato  da tutto il mondo occidentale come espressione suprema di una nuova forma di guerra globale, in quanto vero e proprio attacco al “cuore stesso dellaciviltà occidentale” e dagli storici ormai interpretato, in effetti, come un evento periodizzante, benché in realtà registri, come un sismografo, il declino in atto della leadership degli USA. Sono proprio i committenti infatti, con i loro sforzi e le loro pressioni a determinare, in un regime di aspra concorrenza, le selezione delle memorie che poi verranno effettivamente mantenute. La situazione può essere equiparata a quella di una sorta di mercato delle memorie, ove qualunque gruppo può diventare committente di una qualche specifica memoria. La proliferazione delle memorie implica la proliferazione delle committenze e viceversa. Ma il mercato delle memorie e la selezione delle memorie hanno una rilevanza collettiva e pubblica ed è interessante osservare che per gli Usa l’attacco alle Torri Gemelle e l’individuazione della matrice terroristica islamica come “nemico assoluto” hanno funzionato come denominatore comune per giustificare/spiegare quasi tutte le scelte compiute in politica estera  e in politica economica, dal 2001 fino ad oggi, oltreché per rendere dominante questo evento nella memoria pubblica del mondo, occidentale soprattutto, ma non solo.

Sono ancora molto attuali le osservazioni di  Ingrid G. Holthey relativamente al fatto  che “la riscoperta della memoria collettiva va di pari passo con un rinnovato interesse sociale per il ricordo, parallelamente ad un allontanamento politico dall’utopia concreta, vale a dire da progetti sociali alternativi e contrapposti all’ordine esistente”.

Si tratta diuna diagnosi perfetta  per  rappresentare la situazione generale del nostro paese, e non solo, con una la classe dirigente che accentua il valore della memoria pubblica per colmare, compensare una carenza di progettualità politica, una mancanza di modelli socio-economici alternativi  rispetto a quelli dominanti, una asfissìa di  proposte culturali fondate e convincenti.

Inoltre  bisogna  osservare che il fenomeno attuale di  spostamento di interesse verso la memoria e il ricordo, a scapito della storia, oscilla fra due poli: un ritorno del rimosso-cioè un riaffiorare di memorie collettive residuali- ed una strategia di commercializzazione dell’industria televisiva e cinematografica che spesso copre o sostituisce una mancanza di ricerche, una frantumazione di racconti, una carenza di passaggi di memorie fra generazioni diverse.

Si può interpretare questo fenomeno come una perdita di utopie e sogni collettivi alternativi come suggerisce la Holthey? O non rappresenta piuttosto la “fine di una società fondata sulla memoria” vista come garanzia di una regolata conservazione e trasmissione di valori e di significati fondativi? Possiamo spingerci ad ipotizzare che questa riscoperta della memoria si accompagni sempre di più anche a tentativi di demarcazione etnica e a fattori di legittimazione e consolidamento di identità collettive di gruppi, più o meno estesi, e di comunità perché, specie in periodi di forte crisi e velocità di cambiamenti, l’affiorare di una primitiva e latente connessione fra memoria ed Ethical turn funziona comeestremo baluardo e difesa di fronte alla dimensione globale di quasi tutti i processi in atto, come rifugio rassicurante e consolatorio dinanzi alle rapidissime trasformazioni che sembrano travolgere i nostri schemi.

(cfr. Ingrid G. Holthey, Chi definisce ciò che deve essere ricordato?- in Novecento, n.5, dicembre 2001-Istituto Storico di Modena)

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