Il mese delle donne in carcere

08.01.2016

Il mese delle donne in carcere

In Emilia-Romagna le donne in carcere, alla data del 2 dicembre 2015, erano 123, di cui 44 straniere – in prevalenza provenienti dall’Est Europa. Sono 5 gli Istituti che ospitano al loro interno sezioni dedicate all’espiazione di pena per le donne: Piacenza, Modena Sant’Anna, Bologna, Forlì e Reggio Emilia

A loro è stata dedicata non solo la Giornata mondiale per i diritti umani, il 10 dicembre, e la ricerca promossa anche dall'Assemblea legislativa, ma tutta una serie di iniziative più ampie. A seguire il commento di Desi Bruno, Garante regionale delle persone private della libertà personale, e in allegato il resoconto della presidente della Conferenza regionale volontariato giustizia, Paola Cigarini.

 

Il commento di Desi Bruno

E’ notorio che la vita delle donne detenute non sia un argomento che suscita particolare attenzione neppure tra gli addetti ai lavori. Ed è invece utile approfondire il tema della soggettività delle donne detenute, della loro differenza, cercando di toccare, al contempo, le questioni più generali legate al carcere, la funzione della pena, il tema dei diritti, la risocializzazione/rieducazione, il senso/non senso di una segregazione vuota di idee e di progettazione.

Le recluse sono sempre state poche (meno del 5% della intera popolazione ristretta), e la loro esiguità numerica non le ha costrette a quel trattamento inumano e degradante costituito dalla mancanza dello spazio minimo vitale di cui alla sentenza di condanna dello Stato italiano della CEDU (sent. Torreggiani dell’8.1.2013). Eppure sono ingombranti, anche se la reclusione delle donne non ha una autonomia organizzativa, e vive spesso di quanto accade nel carcere maschile, dal quale riceve briciole, in termini di risorse. In questo “poco” destinato alle donne, ma con meno opportunità di lavoro, studio e formazione, se ancor si può, degli uomini, si avverte un certo imbarazzo, specie nell’amministrazione penitenziaria.

Il tema della resistenza al carcere è raccontato attraverso il risultato di interviste di donne detenute e ad operatori penitenziari ed è quello della difficile sfida a non essere sopraffatte dagli stress costituiti dagli ostacoli ambientali propri di un carcere ancora troppo lontano dalla ragionevole privazione della libertà, dove ancora è difficile qualunque richiesta, dove la spersonalizzazione e l’infantilizzazione sono ancora processi dominanti, forse anche al di là delle intenzioni. A ciò si aggiunge l’interazione con ciò che si incontra dentro. Il rapporto con le altre donne, il vissuto familiare, il ruolo genitoriale, la tossicodipendenza, la relazione con le operatrici, soprattutto con le agenti di polizia penitenziaria, ma ancora con gli educatori, assistenti sociali, quello con gli uomini rimasti fuori (e quelli dentro), attraverso la coscienza di sé, del proprio esistere, del proprio corpo.

La centralità degli affetti, per esempio, la loro perdita, la lontananza (i figli soprattutto, ma anche i genitori, i partners) è per le donne detenute uno dei fattori maggiori di sofferenza e di condizionamento in negativo, la cui rilevanza rimanda al tema della centralità della “cura” nella donna. Eppure il carcere ancora oggi rende difficile avere colloqui, incontri o anche solo notizie sulle persone care, nonostante il mantenimento delle relazioni esterne sia segnalato dall’OMS come fattore di protezione della salute psicofisica delle persone detenute, anche se, soprattutto nella nostra Regione, molti passi in avanti sono stati fatti.

Ma alla resistenza può anche seguire, da parte di alcune, la presa di coscienza della propria capacità di reazione riuscendo a fare del tempo della detenzione un tempo di azione, ben sapendo però che le strategie individuali hanno come punto di forza delle soggettività adeguate, mentre per quelle fragili tutto è più difficile, in un sistema che non riesce a creare opportunità per colmare i divari di “capitale” individuale. Ed è proprio nella progettualità per un carcere diverso che si deve partire dall’uso del tempo della pena in funzione di costruzione di opportunità. E si potrebbe partire dalle donne detenute, riconoscendo alle stesse una diversa capacità di relazione e di cura. Nella consapevolezza che lavorare per i diritti nei luoghi di privazione della libertà personale trova un limite insuperabile nella esigibilità degli stessi in quel contesto, la soggettività delle recluse appare come una opportunità da cogliere, e non da accantonare, incentivando capacità, occasioni, riflessioni, cambiamenti. Questa ricerca vuole essere un piccolo, ma significativo, contributo.

 

Azioni sul documento