Asilo per perseguitati a causa del proprio orientamento sessuale: si pronuncia la Corte UE

18.11.2013

Asilo per perseguitati a causa del proprio orientamento sessuale: si pronuncia la Corte UE

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è recentemente pronunciata in merito all’interpretazione della Direttiva Qualifiche del 2004 in materia di attribuzione dello status di rifugiato, suscitando non poche critiche da parte di attori non governativi.


La Direttiva Qualifiche e lo status di rifugiato – La Direttiva Qualifiche 2004/83/CE, che fa riferimento alla Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati del 1951, è stata adottata al fine di facilitare il lavoro delle autorità competenti a livello nazionale nell’applicazione della Convenzione stessa, attraverso l’introduzione di nozioni e criteri comuni a tutto il territorio europeo. Le norme minime contenute nella Direttiva riguardano dunque l'attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, sulla base della definizione di “rifugiato” fornita dalla Convenzione di Ginevra come “cittadino di un Paese terzo che temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese”.


Il caso – La vicenda ha origine quando X, Y e Z, giovani cittadini dell’Uganda, della Sierra Leone e del Senegal, presentano domanda di asilo nei Paesi Bassi indicando, a sostegno delle rispettive richieste di riconoscimento dello status di rifugiato, il timore di subire una persecuzione nei paesi d’origine a causa della propria omosessualità. I ricorrenti affermavano infatti di essere stati oggetto, a causa del proprio orientamento sessuale, di reazioni violente non solo da parte delle famiglie ma anche all’interno dei rispettivi ambienti sociali, subendo inoltre atti di repressione da parte delle autorità nazionali dei propri Paesi. Effettivamente, in tutti e tre i Paesi d’origine dei ricorrenti, l’omosessualità è perseguita penalmente con pene che vanno dalla detenzione per un massimo di 5 anni accompagnata da sanzione pecuniaria (in Senegal) alla detenzione da 10 anni all’ergastolo (in Uganda e Sierra Leone). Le 3 domande di asilo sono state inizialmente rigettate ed il caso, corredato da alcune questioni applicative relative alla Direttiva Qualifiche, una volta finito davanti al Consiglio di Stato olandese è stato rinviato alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.


La sentenza – Il 7 novembre 2013 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è espressa sulla delicata questione in oggetto, provocando con la sua decisione reazioni contrastanti.
A destare particolare scompiglio la decisione della Corte che ha stabilito che la mera vigenza di leggi che qualificano come reato gli atti omosessuali tra persone consenzienti non costituisce, di per sé, "persecuzione" ai sensi della Direttiva. L’affermazione è stata motivata dalla Corte sulla base di due presupposti. Il primo fa perno sul concetto stesso di persecuzione che, nei termini delle Convenzione, può essere riferito solo ad atti così gravi da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali. In secondo luogo, i diritti fondamentali specificamente legati all’orientamento sessuale eventualmente in combinato disposto con il divieto di non discriminazione, non figurano tra i diritti umani fondamentali inderogabili. Conseguenza logica delle due premesse è che la mera esistenza di una legislazione che qualifica come reato gli atti omosessuali non possa dunque essere ritenuto un atto incidente sull’individuo in maniera così rilevante da integrare il livello di gravità necessario affinchè si possa parlare di persecuzione. Aggiunge però la Corte che, qualora alla disposizione di legge si accompagnino pene detentive che siano effettivamente applicate nel Paese, andando l’applicazione della pena a costituire una sanzione sproporzionata o discriminatoria ai sensi della Direttiva Qualifiche sarà possibile configurare l’atto di persecuzione, consentendo all’individuo di ottenere lo status di rifugiato.
In casi come quelli in esame, sarà dunque necessario che le autorità nazionali incaricate di applicare la Direttiva procedano ad un esame delle disposizioni legislative e regolamentari con le relative modalità di applicazione del Paese in esame, valutando in definitiva se le eventuali pene detentive previste da siffatte legislazioni trovino o meno applicazione nella prassi.
Scendendo poi nel dettaglio della sentenza, la Corte di Lussemburgo, ha riconosciuto la sussistenza delle due condizioni che rendono possibile parlare di “gruppo sociale” (ammettendo dunque che l’orientamento sessuale è una caratteristica così fondamentale per l’identità da essere irrinunciabile e che, legislazioni penali come quelle in esame, rivolgendosi nello specifico alle persone omosessuali, le contestualizzano come gruppo sociale percepito come diverso dalla società circostante), negando contestualmente la liceità dell’esigere che, in patria, il richiedente asilo nasconda il proprio orientamento sessuale o sia comunque discreto su di esso al fine di evitare discriminazioni.

 

Le reazioni – Durissime le reazioni di Amnesty International e della International Commission of Jurists (qui il documento di osservazioni delle due organizzazioni sul caso) nell’evidenziare all’unisono come la sentenza sia la dimostrazione del fatto che la Corte non è al passo con le disposizioni internazionali in materia di diritti umani e asilo. Secondo le due organizzazioni infatti, la mera esistenza di leggi che puniscono atti omosessuali consensuali, criminalizzando gli individui per il loro orientamento sessuale e dunque per chi sono, si pone già di per sè in contrasto con le norme internazionali in materia di diritti umani, nonché con la dignità umana e l’eguaglianza come previsti nella Carta dei diritti fondamentali e nella CEDU: norme penali di quel tipo infatti, sono capaci anche quando non applicate frequentemente “di originare un fondato timore di persecuzioni in persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender ed ermafroditi, che per questo dovrebbero essere riconosciute come rifugiati quando fanno domanda di asilo”, come sottolineato da Livio Zilli, Senior legal Adviser della International Commission of Jurists.
Le disposizioni penali difatti, è bene ricordare, si caratterizzano per avere un contenuto sia punitivo che normativo, accompagnando la comminazione di una pena all’esplicitazione del comportamento vietato cui la stessa si riferisce. In altre parole, le norme penali esprimono ciò che è accettabile e ciò che non lo è in una determinata società. Il contenuto normativo opera, sul piano sociale, indicandoci ciò che possiamo o non possiamo fare o essere, legittimando al contempo la stigmatizzazione e disapprovazione della società verso i comportamenti vietati. È dunque evidente che le disposizioni penali che puniscono l’omosessualità, anche qualora non siano applicate, determinano comunque in ragione della loro mera vigenza, discriminazione e umiliazione incidendo sulla dignità delle persone colpite dallo stigma sociale.
Non solo. Le due organizzazioni fanno notare come l’esistenza di una legislazione che criminalizza l’omosessualità vada ad incidere anche sulla possibilità del singolo di ottenere tutela e protezione rispetto a violazioni dei propri diritti relative all’orientamento sessuale, a prescindere dalla frequenza nell’applicazione della legislazione stessa: se un comportamento è definito come reato, non si può certamente ottenere protezione dalle autorità competenti a fronte di violazioni ad esso riferite.
Sherif Elsayed-Ali, direttore dell’ufficio Refugee and Migrants' Rights di Amnesty International ha dichiarato che la Corte ha “perso un’opportunità chiave per dichiarare chiaramente che criminalizzare le condotte omosessuali consensuali coincide in definitiva con l’incriminare le persone per quello che sono e, quindi, determina una persecuzione di per sè, indipendentemente da quanto spesso le sentenze di incarcerazione vengono applicate”.
In conclusione, se dal punto di vista strettamente giuridico è vero che l’obiettivo della Direttiva Qualifiche “non è quello di esportare” fuori dall’Unione le libertà riconosciute dalla Carta dei diritti fondamentali o dalla CEDU, come ha affermato l’Avvocato Generale designato per la causa Sharpston, è anche vero che le aspettative nei confronti dell’Ue, Nobel per la Pace 2012, sono giustamente alte in materia di diritti e libertà.

Giulia Guietti

 

Per informazioni:
Testo integrale della sentenza  

Direttiva Qualifiche 
Corte di Giustizia dell’Unione Europea http://curia.europa.eu;
Amnesty International www.amnesty.it; Mail info@amnesty.it; Tel. 06/44901; Fax 06/4490222
International Commission of Jurists www.icj.org; Mail info@icj.org;

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