Milena Jesenka e Margarete Buber Neumann a Ravensbruck

Nel lager femminile di Ravensbrück , ove rimase dal 1940 al 1945, Margarete Buber-Neumann, ebbe pessimi rapporti con le detenute comuniste tedesche, che l'accusavano di tradimento, a causa del suo atteggiamento critico nei confonti del regime sovietico.

Il drammatico isolamento fu interrotto solo dalla profonda amicizia che Margarete riuscì a intessere con la scrittrice ceca Milena Jesenka. Arrestata nell'autunno del 1939, Milena era subito stata trasferita in Germania, a Ravensbrück, ove morì nel 1944.

Ci conoscevamo da appena due settimane quando le portavoce delle comuniste ceche del campo - la Paleckova e Ilse Mach - avvicinarono Milena, chiedendole se sapeva che io ero una trockista e diffondevo infamanti menzogne sull'Unione Sovietica. Milena precisò di conoscermi ormai abbastanza bene per poter valutare le mie dichiarazioni, che personalmente trovava del tutto degne di fede. Alcuni giorni più tardi le comuniste le imposero un ultimatum: doveva scegliere tra la comunità ceca di Ravensbrück e la trockista tedesca Grete Buber. La sua scelta le attirò l'odio delle staliniste per tutti i quattro anni che ancora sopravvisse nel campo. Finché poté disporre delle proprie forze riuscì a controbattere ai loro attacchi ma quando si indebolì, si trasformò in un inerme bersaglio delle loro angherie. [...]

Quel che risultava particolarmente indigesto alle prigioniere comuniste erano la sua superiorità politica e l'assoluto dispregio dei compromessi. Nel campo si propagavano di continuo le più svariate voci ottimistiche. Dal 1940 prese a circolare la notizia che la guerra sarebbe finita in pochi mesi, ogni due settimane scoppiava una rivoluzione e Hitler era caduto vittima di centinaia di attentati. Quando la sua interlocutrice cercava di propinarle queste chiacchiere, Milena faceva risolutamente piazza pulita di ogni sua illusione. Soprattutto nel 1941, quando l'aggressione nazista alla Russia scatenò un'ondata di entusiasmo filo-sovietico non soltanto tra le comuniste, ma anche tra le prigioniere politiche di diversa nazionalità, Milena paventò loro il futuro quadro dell'Europa sotto il tallone stalinista. Con lungimiranza, Milena previde l'assetto che si sarebbe instaurato al termine del conflitto mondiale. All'epoca, anch'io contrastai animatamente il suo punto di vista, convinta che le forze sovietiche non si sarebbero mai spinte tanto ad ovest. "Se sopravviveremo è probabile che non potrò mai più far ritorno a Praga. Come faremo a sfuggire ai russi? " si interrogava spesso angosciata.

Quanti piani di fuga non ho ideato, quante macchinazioni non ho escogitato nel tentativo di rassicurarla. Le sue preoccupazioni si rivelarono pienamente giustificate. Le prigioniere comuniste diffusero nel campo la voce che, quando i russi avrebbero liberato Ravensbrück, ci avrebbero messe al muro, oppure deportate in Siberia. Loro non avrebbero certo disdegnato di offrire un cospicuo aiuto. Nella profonda depressione in cui caddi dopo la morte di Milena, mi capitò talvolta di provare un senso di gratitudine al pensiero che la mia amica avesse potuto morire in un letto della baracca ospedale. [...]

Milena non si adeguò mai alla condizione di "prigioniera", non si abbruttì, né assimilò atteggiamenti brutali, ai quali indulgevano invece molte altre deportate. Vedeva tutte le atrocità intorno a sé sgomenta ed impotente di fornire un aiuto concreto. Nell'ufficio dell'infermeria lavorava a stretto contatto con molte prigioniere comuniste ed era costretta a sentire i loro discorsi. Non le era possibile restare indifferente. Milena era una donna combattiva. Con il piglio tagliente che la caratterizzava non cessò mai di contestare le chiacchiere menzognere sul collettivismo, la democrazia proletaria e la libertà socialista. Le sue avversarie non glielo perdonarono mai. [...] Milena era una scrittrice ed i miei resoconti sugli eventi vissuti in Siberia le ispirarono l'idea di trarne un libro scritto a due mani, sempre se fossimo riuscite a sopravvivere e a tornare in libertà. Nella sua fantasia architettò un libro sui campi di concentramento di entrambe le dittature, con il quotidiano rito dell'appello, le squadre di lavoro che marciavano incolonnate e milioni di uomini degradati a schiavi in nome del socialismo da una parte, e ad onore e gloria della razza superiore dall'altra.

(M. Buber-Neuman, Prigioniera di Stalin e Hitler, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 239-242. Traduzione di M. Margara)

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