L'imbarazzo dei comunisti di fronte alla realtà dell'URSS

Anche lo scrittore spagnolo Jorge Semprún, a quell’epoca comunista convinto, ricorda il disagio con cui ricevette le prime informazioni a proposito dell’esistenza dei lager in URSS. La scena seguente è ambientata a Buchenwald, nel dicembre 1944, e prende spunto da un capo di abbigliamento indossato da un detenuto comunista russo.

<<Hai notato il suo berretto?>> mi domanda Otto qualche istante dopo.

É di nuovo accanto a me. Per me è l’ora di andare al Revier [= l’infermeria – n.d.r.].

<<Sì, un berretto dell’NKVD! [= la polizia segreta sovietica – n.d.r.] Nikolaj è molto orgoglioso di indossarlo. Un berretto da ufficiale delle unità speciali della polizia...>>.

<<Così, - mi interrompe Otto, - senza cambiare il berretto potrebbe cambiare la situazione: invece di essere deportato in un campo nazista potrebbe essere guardiano in un campo di concentramento sovietico>>.

Sento un freddo glaciale circondarmi le spalle.

<<Che vuoi dire, Otto?>>.

<<Quello che dico: ci sono campi di concentramento in URSS...>>.

Mi rivolgo a lui.

<<Lo so... Ci sono scrittori che ne hanno parlato... Gor’kij ne parlò a proposito della costruzione del canale del Mar Bianco. Lì mandano persone comuni a lavorare, a lavorare per rendersi utili, invece di marcire stupidamente in galera. Campi di rieducazione per mezzo del lavoro...>>.

Mi rendo conto di avere appena pronunciato una parola fatidica del vocabolario nazista: Umschulungslager, campo di rieducazione.

Otto sorride.

<<Proprio così... Umschulung. É la mania delle dittature, la rieducazione! Ma non voglio discutere con te: hai deciso di non volermi capire. Posso presentarti un deportato russo, un tipo in gamba. Un raskol’nik davvero, un vecchio credente [= fedele della Chiesa ortodossa, contrario a alla riforma della liturgia tradizionale introdotta dallo zar Alessio intorno al 1660. Per tutto il Seicento, la roccaforte di questi vecchi credenti fu il prestigioso monastero delle isole Solovki – n.d.r.]. Un testimone, non solo di Cristo... Lui ti racconterà cosa succede in Siberia>>.

<<La conosco già la Siberia – gli dico rabbioso. – Ho letto Tolstoj, Dostoevskij...>>.

<<Quelli erano i penitenziari zaristi. Il mio raskol’nik ti parlerà dei penitenziari sovietici>>.

Non posso trattenermi nemmeno un minuto di più: Kaminsky diventerà furibondo se arrivo in ritardo.

<<Senti, - gli dico, - ho un appuntamento importante, adesso, al Revier. La prossima domenica mi racconti tutto>>.

Otto se ne va, alzandosi il bavero del cappotto, sprofondando la testa fra le spalle, per proteggersi dal vento gelido.

La domenica successiva mi aspettava accanto al pagliericcio di Maurice Halbwachs.

<<Bene, - gli dissi, - quando posso parlare col tuo raskol’nik?>>.

Pare inquieto. Sfugge il mio sguardo.

<<Lui non ti vuole vedere – mi dice, dopo una lunga esitazione>>.

Spero che mi dica qualcosa di più, ma tarda a darmi spiegazioni.

<<Non vuole parlare con un comunista>> dice rapidamente.

Si sforza di sorridere.

<<Neppure con un giovane comunista spagnolo, parlerà>>.

<<Da dove viene questa scemenza?>>.

<<Tu non vuoi mai ascoltare la verità. E inoltre puoi parlare del problema con i tuoi compagni tedeschi, che qui hanno diritto di vita e di morte. Quando ha saputo che lavoravi all’Arbeitsstatistik [l’ufficio del lager che distribuiva i detenuti ai diversi luoghi di lavoro, che ovviamente potevano essere più o meno pesanti – n.d.r.] si è rifiutato del tutto.

Mi sentivo sconcertato, e pure indignato.

<<Non gli hai detto che si sbagliava? Non l’hai tranquillizzato? Cosa gli hai detto?>>.

Scuote la testa e mi posa una mano sulla spalla.

<<Che probabilmente tu non gli crederesti. Ma di tenertelo per te, di non parlarne con nessuno>>.

Cerco di vendicarmi.

<<Che testimone il tuo raskol’nik! Non è poi tanto coraggioso...>.

<<Aveva previsto la tua reazione – mi dice Otto. – Mi ha pregato di dirti che non è una questione di coraggio. Ma che è inutile parlare con chi non vuole ascoltare, nemmeno sentire. Verrà il giorno in cui ci vedrai chiaro, lui ne è sicuro>>.

Siamo in piedi, ora silenziosi, appoggiati alla branda di Maurice Halbwachs.

É vero che non avrei voluto sentire il raskol’nik, che non avrei voluto ascoltarlo. Per essere del tutto sincero, credo in qualche modo di essermi sentito sollevato davanti al rifiuto del vecchio credente. Il suo silenzio mi avrebbe permesso di rimanere comodamente nella mia sordità volontaria.

(J. Semprún, Vivrò col suo nome, morirà con il mio. Buchenwald 1944, Torino, Einaudi, 2005, pp.108-111. Traduzione di P. Collo e P. Tomasinelli)

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