Shoah, di Claude Lanzmann

Alcune delle critiche più severe giunsero a Lanzmann da Tzvetan Todorov, che rinfacciò al regista un approccio manicheo (per quanto concerne, in primo luogo, i testimoni polacchi) e assolutizzante: la Shoah diventava un evento al limite dell’incomprensibile, che poteva essere raccontato dai protagonisti, mentre gli storici - in ultima istanza - avrebbero dovuto tacere.

Shoah è un film composto essenzialmente di interviste a tre gruppi di personaggi: sopravvissuti (ebrei) dei campi di sterminio, testimoni (polacchi) e ex nazisti (tedeschi). Il soggetto del film (lo sterminio), come la sua materia (le interviste), appartiene dunque alla storia. Tuttavia, ed è questa la prima caratteristica che balza agli occhi, non si tratta di un documentario nel senso corrente del termine, ma, diciamo così, di un'opera d'arte. [...]

Quello a cui [Lanzmann] aspira non è descrivere il passato con maggiore esattezza, ma resuscitarlo nel presente. La scelta di un simile scopo comporta quella di mezzi adeguati. In primo luogo Lanzmann sceglie fra i testimoni coloro che non si limiteranno a riferire i fatti, ma che li rivivranno sotto i nostri occhi. Per ottenere questo risultato li conduce nei luoghi che sono stati teatro del crimine (o in luoghi che ricordino quelli originali), e qui spia le loro reazioni. Quando occorre, ricostituisce il contesto: noleggia una locomotiva per piazzarvi l'ex macchinista, Gawkowski, oppure un salone di parrucchiere per ricollocare nel suo ambiente l'ex barbiere, Abraham Bomba. In altri momenti rivolge domande provocatorie o insidiose perché emergano lati insospettati dei suoi interlocutori. Crea quindi un film in cui i personaggi del passato ritrovano davanti alla cinepresa l'intensità della loro antica esperienza. La distanza tra passato e presente è abolita. Lanzmann non filma il passato, cosa impossibile (non c'è materiale d'archivio in Shoah ), ma il modo in cui oggi lo si ricorda. [...] Scommessa vinta: facendoci rivedere gli stessi volti tesi, gli stessi paesaggi, gli stessi treni, Lanzmann ci costringe a partecipare - sia pure in maniera evidentemente attenuata - all'angoscia degli antichi viaggiatori. Alla decisione di creare un'opera, e non di offrirci un'ulteriore testimonianza, si deve in definitiva la sconvolgente esperienza che rappresenta il nostro confronto col film. [...]

Quasi tutte le riserve formulate nei confronti di Shoah riguardano la parte polacca del film. Ad eccezione di Karski, un polacco fuggito dalla Polonia [che informò il governo polacco in esilio a Londra della gravità della situazione creatasi a Varsavia nel 1942-1943 - n.d.r.], Lanzmann ha voluto mostrarci solo polacchi antisemiti. Essi sono rimasti indifferenti alla sofferenza degli ebrei, nei cui confronti usano sempre gli stessi stereotipi, e in definitiva sono contenti di essersene sbarazzati. E poiché secondo la legge dell’arte ciò che non viene mostrato non esiste, qualunque sia l’intento di Lanzmann, il suo messaggio dice: tutti i polacchi sono antisemiti. Senza voler contestare che la popolazione polacca abbia provato sentimenti del genere, si può giudicare tale affermazione eccessivamente semplicistica e manichea: come ho già ricordato, la situazione reale è molto più sfumata. […] Leggendo i testi di Lanzmann, contemporanei o posteriori alla realizzazione del film, si capiscono le ragioni della sua parzialità. Per lui la Polonia non è un paese reale, bensì un’astrazione o un’allegoria, un po’ come per gli eroi dell’insurrezione di Varsavia: il teatro della carneficina per antonomasia. "Un viaggio in Polonia è innanzi tutto e soprattutto un viaggio nel tempo", decide l’autore all’indomani della sua prima visita. E in seguito: "l'Ovest per me è umano, l’Est mi fa paura". Questa allegorizzazione della Polonia reale fa sì che egli si consacri esclusivamente a illustrare ciò che chiama "le mie personali ossessioni" e a sottolineare la differenza fra i polacchi e gli altri esseri umani. […] Si dà il caso che Shoah faccia rivivere un certo manicheismo, la tesi della colpevolezza collettiva, una certa mancanza di rispetto per la dignità della persona. In questo consiste ai miei occhi il paradosso del film: mantenere in vita certi princìpi, proprio mentre si propone di combatterli.

A più riprese Lanzmann si dichiara ostile a ogni tentativo di comprensione della passata violenza. Lui aspira alla sua riproduzione. "C'è qualcosa che per me rappresenta uno scandalo intellettuale: il tentativo di capire, storicamente, come se ci fosse una sorta di genesi armoniosa della morte... Per me, l'assassinio, sia esso individuale o di massa, è un atto incomprensibile... Ci sono momenti in cui capire è pura follia". "Ogni discorso che cerchi di generare violenza [ossia di spiegarla] è il sogno assurdo di un non-violento". Anche per questa ragione Lanzmann rifiuta di paragonare l’olocausto a un evento passato, presente o anche futuro (!) e difende la tesi della sua unica singolarità .

Ma anche se non c'è genesi armoniosa della morte, né deduzione logica dell'evento a partire dalle sue premesse, anche se, nonostante i nostri sforzi, nel genocidio perpetrato dai nazisti resterà sempre una parte oscura, ci sono però anche molte cose da capire, e la comprensione permette di prevenire il ritorno dell'orrore, sicuramente meglio di quanto non faccia il suo rifiuto. Rinunciare a ogni sforzo per capire gli assassini è forse il miglior modo per impedire che ricomincino? Circoscrivere l'evento nella sua singolarità, negargli ogni somiglianza con il presente o il futuro , non è forse un modo per rifiutarne l'insegnamento?

In una pagina che trovo inquietante, Lanzmann racconta di aver fatto sua la lezione impartita da un SS di Auschwitz a Primo Levi: "Hier ist kei warum", qui non c'è nessun perché. "Nessun perché: una legge valida anche per chi si assume la responsabilità di una simile trasmissione" , quella del suo film. Ma si deve essere davvero così solleciti nel far propria la lezione di Auschwitz che Levi avrà passato quarant'anni a combattere [...] ? E a proposito dell'odio: in un'intervista chiedono a Lanzmann se crede che i nazisti ne fossero posseduti. Egli elude spazientito la domanda: considerazioni psicologiche di quel genere non lo interessano. [...]

Qualcuno potrebbe trovare fuori luogo le mie riserve su un'opera così vigorosa. Quando l'orrore dell'atto ha raggiunto tali estremi e il dolore è stato così vivo, è il caso di farsi tante domande e pretendere giudizi sfumati? Si potrebbe però sostenere in senso inverso: proprio in colui che si è spinto così lontano nella conoscenza del male, si vorrebbe trovare una maggiore saggezza.

T. Todorov, Di fronte all'estremo, Milano, Garzanti, 1992, pp. 261-267. Traduzione di E. Klersy Imbersciadori

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