La profezia di Hitler

Adotteremo come punto di partenza il discorso pronunciato da Hitler il 30 gennaio 1939 davanti al Reichstag in occasione della commemorazione annuale della sua ascesa al potere. In quel discorso, accennava allo sterminio degli ebrei che sarebbe avvenuto se fosse scoppiata una nuova guerra mondiale. […]

Nella dichiarazione del 30 gennaio 1939, Hitler diede espressione sintetica ed enfatica allo schema apocalittico che strutturava la sua ideologia antisemita […]. Apocalisse significa rivelazione, la rivelazione della lotta finale che coinvolge la sorte dell’umanità. Profeta è colui che fa questa rivelazione ed è il ruolo che si assume Hitler. Addossando agli ebrei la responsabilità di una eventuale guerra mondiale, egli riprende il tema della guerra ebraica, di una guerra fomentata dagli ebrei – uno dei temi nuovi dell’antisemitismo moderno. Un tema che però amplifica collocandolo in un quadro apocalittico. La lotta di cui si parla mette in gioco molto di più della sorte della Germania. Non parla infatti della Germania, ma del mondo, della bolscevizzazione del mondo.

Hitler è in senso letterale un profeta di sventure. Quando nello stesso discorso evoca un’altra possibile soluzione della questione ebraica, la concentrazione in un territorio lontano, non riveste i panni del profeta. E’ l’uomo la cui immaginazione è attratta dalle situazioni estreme. Ne aveva dato prova nel Mei Kampf. In quel 30 gennaio 1939 rivelava di essere pronto all’occorrenza a rispondere con misure estreme.

Ma qual è la situazione da lui prospettata , che potrebbe portare allo sterminio degli ebrei europei? Si sarà notato che egli evita di pronunciarsi sull’identità del vincitore dell’eventuale guerra mondiale. Coerentemente con la sua ideologia, l’avvenire è una lotta il cui esito è incerto. Ciò che gli preme annunciare, come sottolineato dal tenore negativo della seconda parte della frase, è che in nessun caso  la guerra si concluderà con la vittoria degli ebrei. Se il nazismo uscirà vincitore, va da sé che gli ebrei saranno eliminati, anche se non se ne conosce il modo, con lo sterminio o la deportazione in terre lontane, eventualmente con un’operazione internazionale. E’ chiaro che non è questa l’ipotesi che spinge Hitler ad atteggiarsi a profeta. E’ piuttosto l’ipotesi in cui il nazismo non esca vincitore, sia che la guerra si protragga portando allo sfinimento generale, sorgente di tutti i mali possibili, sia che, peggio ancora, si concluda con la sconfitta senza appello della Germania nazista.

Se si accetta questa interpretazione, ciò che Hitler annuncia è che, anche se non è in suo potere determinare la fine vittoriosa dell’eventuale guerra mondiale, è in suo potere fare in modo che gli ebrei non ne escano vincitori. Ciò che emerge qui con violenza è il trauma del 1918, la matrice storica del nazismo sotto tutti i punti di vista, l’origine del suo atteggiamento di attesa e della sua mentalità di gruppo. Una non vittoria o una sconfitta tedesca potrebbero avverarsi, ma in nessun caso una nuova vittoria degli ebrei. […]

Al di là dell’interpretazione da dare a questa dichiarazione, bisogna chiedersi che funzione rivesta l’assumere il ruolo di profeta. […] La prima è una funzione statutaria. Il ruolo profetico – familiare nella cultura cristiana – rifletteva e confermava l’eccezionalità di Hitler, in altri termini il suo carisma. Il capo nazista si presentava nei panni di mediatore fra il mondo dei mortali e il mondo sovrannaturale per annunciare la fine di un regno, quello degli ebrei. Lo faceva coniugando la sorte loro e la sua personale in una visione che forniva alla situazione un’ampiezza cosmica e una portata quasi metastorica. E se il peggio si fosse realizzato, avrebbe elevato, con le sue solenni parole, un mausoleo in cui la posterità avrebbe commemorato l’eroe germanico che era riuscito a far scendere nella tomba il suo peggiore nemico prima di soccombere a sua volta.

La seconda funzione è pedagogica, una pedagogia che punta all’identità. Hitler proponeva ai suoi fedeli e al popolo tedesco la sua interpretazione di una realtà in gestazione, un’eventuale guerra mondiale evidente conseguenza della sua politica, ma di cui addossava in anticipo la responsabilità agli ebrei e che descriveva come una lotta all’ultimo sangue contro di loro. Nell’esprimere in maniera spettacolare la sua visione apocalittica, incoraggiava l’adozione della forma più violenta di antisemitismo. I tedeschi erano invitati ad abbandonare lo spazio nazionale regolato dalle norme del diritto, fosse pure di un diritto eccezionale che discriminava una minoranza. E non per portarsi nello spazio delle guerre fra Stati, nel quale alcune norme giuridiche sopravvivevano ancora, bensì per spostarsi nello spazio metafisico della lotta fra il bene e il male che non ammetteva né tregua, né compromesso, né limite alcuno all’esercizio della violenza.

Con la sua profezia, Hitler incoraggiava, insomma, la formazione di una comunità di pensiero e di azione, di una comunità interpretativa, come direbbero i miei colleghi anglosassoni. Voleva che venisse condivisa la sua visione di una situazione estrema e questa visione doveva allargare i limiti del concepibile, orientare le attese e fornire, ove necessario, la giustificazione all’agire.

(P. Burrin, L’antisemitismo nazista, Trino, Bollati Boringhieri, 2004, pp. 61-67. Traduzione di G. Secco Suardo)

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