Ebrei e polacchi di fronte alla guerra: una memoria divisa

Nel suo lavoro intitolato Shtetl, l’autrice compie un magistrale esercizio di micro-storia, ricostruendo le principali vicende storiche di Bransk, una cittadina polacca che contava, prima della guerra, circa 4 600 abitanti (la metà dei quali ebrei). Nel 1939, Bransk fu occupata dai sovietici; nel 1941, fu uno dei primi centri ad essere conquistati dai tedeschi.

Ormai non è più possibile capire quali fossero le motivazioni degli informatori né quanti fossero. Ne bastavano pochissimi per causare danni indicibili. Alcuni forse avevano paura delle ritorsioni, altri ambivano al presunto denaro degli ebrei o alla magra ricompensa – mezzo chilo di zucchero! – che la Gestapo offriva in cambio di un ebreo. C’era ancora chi credeva che gli ebrei fossero legati a filo doppio con i comunisti, per cui ucciderli rappresentava una vendetta politica. Si racconta che i fratelli Rycz, famosi per la loro crudeltà e per il gusto con cui torturavano gli ebrei, abbiano urlato: << Nessun ebreo né comunista esce vivo dalle nostre mani! >>, mentre cercavano di uccidere il fratello di Alter Trus. La gente di Bransk ha ricordato a lungo i cadaveri degli ebrei con la gola tagliata che galleggiavano sul fiume, nella corrente insanguinata. Con l’incoraggiamento dei nazisti, la brutalità diventava un fatto normale. Si ha l’impressione che, a mano a mano che la vita degli ebrei perdeva di valore e che questi uomini e donne venivano ridotti ad animali braccati, diventasse più facile per certi polacchi identificarsi con l’aggressore, aumentare la distanza emotiva tra se stessi e le vittime, e buttar via la vita degli ebrei con la stessa facilità con cui si macella una creatura non umana. Per alcuni polacchi probabilmente entrava in gioco anche un orribile trasferimento della propria aggressività – rabbia stornata dall’obiettivo reale, ma irraggiungibile, a un altro, molto più vulnerabile. [...]

E’ comunque troppo tardi per capire perché la gente si comportò in un certo modo, con quale spirito e per quale motivo. Forse non è neanche giusto parlare di motivazioni. La situazione in cui venne a trovarsi la Polonia durante la guerra era talmente particolare e terribile che cambiarono i normali rapporti di causa ed effetto, così come cambia il comportamento delle molecole quando sono sottoposte ad una pressione eccessiva. Se vogliamo sforzarci di comprendere, nello scegliere i parametri di giudizio dobbiamo tener conto degli effetti psicologici di questa distorsione morale.

L’occupazione nazista, soprattutto nei confronti degli ebrei, determinò una situazione di mostruosa inversione dei principi etici, un mondo in cui venivano criminalizzati i più comuni valori – come la dignità, il senso di responsabilità verso gli altri, il rispetto e la compassione – ed erano considerati assolutamente normali la più bieca brutalità e il sadismo. Ecco che cosa possiamo immaginare: una cittadina di campagna o un villaggio, dove la vita apparentemente seguiva il suo corso naturale, ma che in realtà era stato trasformato in un luogo di perversione legalizzata – un luogo in cui gli abitanti, non troppo raffinati o istruiti, venivano ricompensati (per quanto miseramente) se vendevano la vita dei vicini e venivano uccisi se li aiutavano, e in cui questa legge era sostenuta dalla presenza assillante di occupanti assassini, guardie armate e cani poliziotto rabbiosi. In questa situazione, alcuni si sentivano autorizzati dalle nuove regole a dar sfogo ai propri istinti più brutali e violenti: quando il comportamento criminale viene ricompensato, c’è sempre qualcuno che è contento di approfittarne; quando il sadismo è legittimato e può scatenarsi liberamente, c’è sempre qualcuno la cui crudeltà latente, non più repressa, emerge ed esplode. [...]

Ed è ancor più doloroso che i crimini che i polacchi commisero, o quelli che non cercarono di impedire, siano avvenuti in luoghi familiari, e siano stati perpetrati da amici, da persone di cui si conoscevano la faccia e le abitudini, Dopo la guerra, il dolore, la rabbia e lo sdegno morale dei sopravvissuti erano diretti soprattutto contro costoro. Le loro azioni furono, e rimangono, imperdonabili. Nei ricordi dei sopravvissuti emerge spesso, accanto all’odio assolutamente legittimo, una sorta di rimozione, di trasferimento del rancore dalla causa principale delle loro sofferenze a un’altra, quella più a portata di mano. In effetti è difficile indirizzare un odio profondo e ben vivo contro un’anonima macchina della morte, contro il blocco monolitico dei nazisti. I soldati tedeschi che occupavano Bransk avevano facce dure, terribili – tutti concordano su questo -, ma erano così lontani, per il potere che esercitavano e il terrore che incutevano, da non avere quasi una dimensione umana; erano l’incarnazione di una forza astratta. Invece le azioni dei polacchi che davano la << caccia >> agli ebrei, che li denunciavano, che li barattavano, avevano il sapore disgustoso di un tradimento spietato. Oltre a procurare la morte, il loro comportamento feriva in modo lacerante e profondo.

- Adesso capisce perché odiamo i polack -, mi dice una sopravvissuta al termine di un racconto in cui ha citato molti casi di polacchi che hanno aiutato gli ebrei. Per esprimere l’odio verso i tedeschi non c’erano parole. Forse i nazisti erano al di là dell’odio, in una realtà in cui dominavano il trauma psicologico, l’obnubilamento e l’assenza della parola. [...]

Zbyszek [lo storico locale che fa da guida all’autrice – n.d.r.] non parla volentieri dei traditori. Quando gli chiedo i dati sui sopravvissuti di Bransk, esita prima di riferirmi i danni arrecati dai polacchi. – Devo proprio parlarne? – chiede turbato. Ma siamo entrambi d’accordo che se si vuole arrivare alla verità, bisogna dire tutto. Allora tira fuori le cifre: secondo i suoi calcoli, a Bransk i << banditi >> furono responsabili della morte di trentadue ebrei. Se si considerano anche i villaggi vicini, il numero arriva a settanta.

Subito aggiunge che nove famiglie, circa quaranta persone, sono state insignite del titolo di << giusti fra le nazioni >> dal museo Yad Vashem di Gerusalemme. E’ fiero di queste persone e crede che il loro comportamento, oltre a rispondere a un normale istinto umano, fosse comune tra i polacchi. La sua opinione è che gli assassini e gli informatori rappresentassero l’aberrazione, l’inevitabile frangia estrema di coloro che furono attratti dal crimine nel clima di illegalità instaurato dai nazisti. I sopravvissuti pensano l’esatto contrario. Pensano che l’odio per gli ebrei fosse la regola per i polacchi e che durante la guerra l’antisemita che era nascosto in ciascuno di loro si sia manifestato con tutta la sua virulenza. Su tale questione, come su molte altre, la memoria dei polacchi e quella degli ebrei restano ostinatamente e inesorabilmente distinte.

(E. Hoffman, Shtetl. Viaggio nel mondo degli ebrei polacchi, Torino, Einaudi, 2001, pp. 225 e 238-243. Traduzione di D. Aragno)

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