Bilancio del razzismo fascista

La prima constatazione è che nel momento in cui il regime fascista varò il suo sistema di apartheid, come già era avvenuto per le legislazioni coloniali, l’Italia non era seconda a nessun altro paese per la meticolosità e la severità delle misure che venivano imposte agli ebrei. Nel complesso, più severa era all’epoca soltanto la legislazione emanata dal regime nazionalsocialista in Germania, anche se talune norme italiane apparivano addirittura più severe e vessatorie delle corrispondenti norme tedesche. Uno studioso, Valerio di Porto, che ha operato di recente una comparazione puntuale tra la legislazione italiana e quella tedesca, ha convalidato una osservazione di questo tipo: non esiste in Germania una norma sull’espulsione generalizzata degli ebrei stranieri come quella italiana del settembre 1938; analogamente l’espulsione degli ebrei dalle scuole in Germania seguì un percorso molto più graduale che non in Italia.

Naturalmente, pur non potendosi in alcun modo ammettere che la legislazione italiana sia definibile più blanda di quella tedesca, bisogna tener conto delle circostanze di regime e di ambiente, oltre che delle tradizioni storiche e culturali che fecero sì che le conseguenze della legislazione razzista fossero, sicuramente fino al 1943, meno devastanti per la popolazione ebraica in Italia, non per la coscienza civile degli italiani, di quanto non avvenne in Germania. Inoltre, la consistenza relativamente esigua della popolazione ebraica in Italia esercitò nei fatti in più circostanze una funzione moderatrice: le violenze, le vie di fatto contro gli ebrei sino al 1943 rimasero fatti sporadici, le offese alle sinagoghe (a Trieste, a Ferrara) non assunsero il volto dei roghi che illuminarono le città tedesche e ne modificarono addirittura il paesaggio urbano, cancellando i segni tangibili della presenza ebraica attraverso la distruzione dei suoi edifici rappresentativi e dei suoi simboli. Né agli ebrei italiani fu imposta la stella gialla o altro segno distintivo, sebbene non fossero mancate neppure nell’entourage fascista intenzioni e richieste in questa direzione. [...]

Una seconda considerazione riguarda il clima di passività e di omertà che la dittatura aveva creato in Italia, al di là della fascia di consenso convinto che esistette intorno al fascismo. La pubblicazione recente ad opera della Camera di deputati, per iniziativa dell’allora presidente Violante, dei facsimili dei protocolli verbali delle sedute della Camera dei deputati (non ancora Camera dei fasci e delle corporazioni) e del Senato del Regno che convertirono in legge i decreti-leggi sulla razza attraverso l’unanimità (al Senato per la verità con qualche voto contrario, essendovi ancora fra l’altro qualche senatore ebreo di nomina regia) di un parlamento ormai fascistizzato, mostra il totale asservimento al regime del ceto politico dominante e al tempo stesso il coinvolgimento negli atti che di fatto revocavano l’emancipazione accordata agli ebrei dallo Statuto Albertino della stessa istituzione monarchica, il cui capo regnante, Vittorio Emanuele III, aveva controfirmato e promulgato le norme limitative dei diritti volute da Mussolini e dal regime fascista. [...]

L’apparato burocratico dello Stato si industriò non solo di dare attuazione alle norme legislative che erano state approvate, ma addirittura di peggiorare le condizioni degli ebrei inventando sempre nuove vessazioni. Se già questa circostanza sarebbe sufficiente a sfatare la leggenda della blanda applicazione della legge da parte della pubblica amministrazione, l’esperienza di chi ha fatto la ricerca oltre che negli archivi centrali dell’amministrazione, in quelli delle amministrazioni periferiche sta a dimostrare esattamente il contrario: lo zelo nella trasmissione degli ordini e delle prescrizioni dal centro alla periferia attivò una sorta di competizione e scatenò una fantasia  persecutoria che non denota tanto l’adesione convinta di prefetti, questori e podestà alle direttive del centro quanto un conformistico adeguamento che spesso dalla periferia suggeriva alla stessa amministrazione centrale la creazione di sempre nuovi ostacoli alla sopravvivenza e alla libera circolazione degli ebrei, quasi che questi fossero diventati oggetti di caccia libera nei confronti dei quali, decaduta ogni garanzia giuridica, fosse possibile esercitare il tiro al bersaglio.

La lotta contro gli ebrei recava l’impronta personale di Mussolini. Il suo inserimento nella polemica contro la borghesia italiana considerata pigra, imbelle e impari ai compiti che il fascismo le prospettava per il futuro, impari soprattutto al suo destino imperiale, doveva servire a galvanizzare un popolo che non aveva ancora preso coscienza della sua dimensione imperiale. C’era in lui probabilmente, nella fase di accostamento alla politica del Terzo Reich, come l’imperativo della necessità di scrollarsi un senso di inferiorità. Impose alle forze armate italiane il cosiddetto passo di parata che doveva competere con quello tedesco perché gli sembrava che soltanto in tal modo si potesse uscire da un senso di inferiorità fisica e dare dimostrazione plastica, fisica della propria forza. Del pari nei confronti della borghesia, ebbe a dire <<altro cazzotto nello stomaco è stata la questione razziale>>. Riscopriva le origine romane del razzismo del popolo italiano e si mostrava convinto che <<siamo ariani di tipo mediterraneo, puri>>.

Ai consiglieri nazionali del Partito fascista alla fine di ottobre del 1938 propose il volto feroce dell’italiano razzista, lanciando uno slogan che sarebbe finito presto come motto su tutta la stampa quotidiana a disprezzo delle incomprensioni e delle resistenze che incontrava il razzismo: <<Bisogna reagire contro il pietismo del povero ebreo>>. Spinse la campagna d’odio contro gli ebrei pur essendo perfettamente consapevole di ciò che stava avvenendo in Germania. All’indomani dei pogrom del 9 novembre 1938, secondo quanto annotava Ciano nel suo Diario alla data del 12 novembre, <<il Duce [è] sempre più montato contro gli ebrei. Approva incondizionatamente le misure di reazione adottate dai nazisti. Dice che in posizione analoga farebbe ancora di più>>. Una notazione interessante che sta a significare che Mussolini ben conosceva le implicazioni della lotta contro gli ebrei e che se quindi la intraprese era disposto ad affrontarla anche nei suoi aspetti più brutali.

(E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Roma-Bari. Laterza, 2003, pp. 77-79)

Azioni sul documento