La vita nei lager sovietici

I forzati dei lager, richiesti, registrati e <<gestiti come risorse umane>>, rappresentavano il gradino più basso nella piramide sociale dell’età staliniana, erano gli <<schiavi del lavoro>> del’Unione Sovietica. Le istituzioni concentrazionarie sovietiche si adoperavano per impedire in tutti i casi che in questi reclusi si formasse un’identità di gruppo; a tale scopo fin dalla nascita del sistema si provvide a suddividerli in categorie. La prima distinzione fu tra <<appartenenti alla classe operaia>> ed <<elementi estranei>> o <<nemici di classe>>, mentre dalla metà degli anni Trenta, rinunciando alla suddivisione in classi, si distinse fra reclusi per motivi non politici e <<controrivoluzionari>>.

Fin dall’inizio dell’era dei piani economici i criminali costituirono l’aristocrazia dei lager. Vi erano delinquenti di mestiere e delinquenti abituali i quali, una volta assunta una posizione dominante all’interno della gerarchia criminale, venivano chiamati urkas, oppure blatnois, blatnjaki o blatari e nel campo formavano una casta potente e rigidamente chiusa con un proprio codice di comportamento. Coloro che infrangevano il codice erano espulsi ed etichettati come suka. I criminali non avevano raggiunto quel loro rango privilegiato solo in virtù della loro organizzazione, bensì anche grazie a un sistematico sostegno da parte delle rispettive direzioni dei campi. Come <<elementi socialmente affini>> godevano di maggiore fiducia; le direzioni dei campi si preoccupavano di creare un antagonismotra loro e gli <<articolo 58>> (come erano chiamati i condannati secondo l’articolo 58 per <<attività controrivoluzionaria>>). La grande maggioranza delle posizioni con incarichi, definite nel gergo dei campi posizioni pridurki, veniva così assunta da criminali. [In tal modo, quasi sempre, i criminali evitavano il duro lavoro manuale. – n.d.r.]

La quota dell’altro grande gruppo, i <<controrivoluzionari>> e gli <<articolo 58>> era in continua crescita. Nella scala gerarchica degli internati stavano all’ultimo gradino; poiché il regime sovietico li considerava soggetti <<non rieducabili>>, gli <<articolo 58>> subivano una serie di inasprimenti della pena cui non erano soggetti i criminali. Ripetute disposizioni, spesso però non osservate, proibivano agli <<articolo 58>> di detenere incarichi. [...]

Principio base per il sostentamento in tutte le categorie di lager era vincolare la quantità delle razioni alimentari al raggiungimento dello standard di produzione, assieme a molti altri criteri. E’ difficile dare una panoramica sulla varietà delle razioni; i reclusi destinati ai <<lavori comuni>> erano particolarmente colpiti da tale regolamentazione. Il cibo era di cattiva qualità, insufficiente e non corrispondeva comunque alle prestazioni richieste dal durissimo lavoro; era carente di calorie, vitamine e altre sostanze indispensabili. Affamando costantemente i reclusi si voleva spingerli a raggiungere o superare lo standard di produzione per ottenere in cambio razioni maggiori o di migliore qualità. Questo genere di sprone al lavoro non produceva quasi mai il risultato sperato visto che i prigionieri morivano anziché lavorare di più. Con l’inizio della guerra le razioni già ampiamente insufficienti vennero ulteriormente ridotte. Grandi crisi di fame percorsero i lager tra il 1941 ed il 1942; solo quando la produttività calò sensibilmente vennero reintrodotte le razioni dell’anteguerra, ma in realtà la <<grande fame>> nel GULag si concluse solo nel 1948. [...]

La morte era una realtà quotidiana nel lager. Gli internati morivano di fame, spossatezza, assideramento, venivano fucilati, erano vittima di incidenti sul lavoro o delle strutture punitive cui erano destinati. L’atteggiamento di disprezzo verso gli esseri umani adottato nei confronti dei reclusi in vita proseguiva con la <<mancanza di pietà>> verso i morti. Il prigioniero defunto veniva contrassegnato al piede sinistro con una targhetta di legno o altro mezzo di identificazione che riportava la sua matricola; i denti d’oro venivano estratti; per ostacolare un decesso simulato, la testa della salma veniva fracassata con un martello o gli veniva conficcato un chiodo nel petto. Il cadavere, nella maggior parte dei casi nudo o con la sola logora biancheria addosso, veniva infine sotterrato all’esterno del campo. Le fosse erano difficilmente o per nulla identificabili.

I reclusi che avevano la fortuna di essere sopravvissuti all’internamento e a cui non era stato comminato un <<secondo termine>>, ovvero una ulteriore condanna, venivano affrancati dallo status di internati in lager, ma non ottenevano la libertà. Le autorità dell’NKVD  [una delle diverse denominazioni assunte dalla polizia politica sovietica – n.d.r.]  erano interessate a non far uscire dall’impero economico del GULag o comunque dal proprio controllo gli ex internati, pur usciti dal sistema concentrazionario del GULag, e quindi li ponevano sotto sorveglianza del Commissariato, poi Ministero degli Affari Interni. Una possibilità era quella di consegnare al rilasciato una lista, la cosiddetta lista delle esclusioni>>, con un elenco di città nelle quali non si sarebbe potuto stabilire, costringendolo così ad andare a vivere in aree che erano zona di insediamento del GULag o dell’NKVD. La seconda variante, altrettanto frequente, era quella di imporre all’ex internato di continuare a vivere come colono nelle vicinanze del campo ove era stato rinchiuso e di continuare a esercitare la consueta attività prevista dai piani. I cosiddetti <<coloni liberi>> vivevano sì all’esterno dell’area del lager, ma continuavano a essere parte integrante del GULag, erano insomma più ex internati che uomini liberi.

(R. Stettner, "Il GULag. Profilo del sistema dei lager staliniani", in G. Corni – G. Hirschfeld (a cura di), L’umanità offesa. Stermini e memoria nell’Europa del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 186-192)

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