Dalla repressione politica alla violenza razziale

Fu proprio la violenza a costituire il nucleo centrale del nazismo. Se nel bolscevismo dottrina e realtà si trovavano in una relazione antinomica – al posto della decadenza dello Stato il Leviatano [= lo Stato assoluto, teorizzato nel Seicento dal filosofo inglese Thomas Hobbes – n.d.r.], e invece della fraternità il Gulag – nel sistema nazista erano un tutt’uno fin dall’inizio. Culto della virilità eroica, affermazione del diritto del più forte, discorso sulla durezza salutare: la violenza non era soltanto un mezzo, ma un valore in sé, essa si equiparava a una <<legge di natura>>, anzi era l’unica in grado di garantire sopravvivenza e vittoria nella lotta delle razze che, nella visione del mondo nazista, rappresentava la trama della storia umana.

Elevata a dottrina ed esaltata nei discorsi, la violenza nazista passò nei fatti con tanta più forza in quanto era necessaria ai progetti fondamentali del regime: vale a dire la trasformazione della società tedesca in tribù guerriera, il dominio sul continente europeo, la riconfigurazione razziale dello <<spazio vitale>> rivendicato dai nazisti nell’Europa centrale e orientale. Proteso verso la guerra, il Terzo Reich portava connaturata in sé la violenza; e la guerra, una volta scoppiata, non fece che amplificare quella feroce aggressività, in primo luogo contro i popoli conquistati e soprattutto contro gli allogeni che per loro disgrazia risiedevano entro lo spazio vitale. [...]

Prima della guerra tale violenza motivata sul piano politica ebbe una portata relativamente limitata, fatta eccezione per i primi mesi del 1933, quando un’ondata di terrore si abbatté sugli avversari del Partito nazista causando l’internamento di circa 50 000 persone in campi di fortuna dove soprattutto le SA si abbandonarono a regolamenti di conti con brutalità inaudita. La repressione politica andò in seguito attenuandosi grazie al consolidarsi del regime e al crescente isolamento degli oppositori. A metà degli anni trenta, la popolazione dei campi di concentramento, ormai unificati sotto il controllo delle SS, segnò persino un calo: nel 1936-37 i detenuti erano 7500. Ma i campi erano diventati un’istituzione pronta all’uso non appena se ne fosse sentita la necessità. [...] In compenso, il Partito nazista non fu sottoposto a nulla di paragonabile alle purghe staliniane; l’episodio che più vi si può accostare, la <<Notte dei lunghi coltelli>> nel giugno 1934, in cui fu decimata la direzione delle SA, fece circa 80 vittime.

Lo scoppio della guerra dette impulso a tale logica repressiva, specialmente nei territori occupati. Ci fu anzi un vero e proprio scatenamento, qualificabile come terroristico in URSS, in Polonia e nei Balcani, prima che l’ondata assassina rifluisse verso Ovest, a partire dal 1943. Nel caso della lotta antipartigiana è difficile valutare quanti civili caddero vittime di rappresaglie poliziesche e militari nell’Europa nazista, anche se il loro numero supera di certo il milione. [...] I campi di concentramento rispecchiano questa evoluzione. Essi divennero una specie di torre di Babele dove convivevano donne e uomini di ogni nazionalità mentre i detenuti tedeschi rappresentavano ormai soltanto una piccola minoranza, ora privilegiata. All’inizio della guerra la popolazione concentrazionaria si aggirava sui 25 000 individui, numero moltiplicatosi per quattro nel 1942, per dieci nell’estate del 1943 e per trenta all’inizio del 1945: nel gennaio di quest’ultimo anno vi erano 714 211 detenuti di cui 202 674 donne. In tutto almeno un milione e mezzo di persone conobbero l’inferno dei campi e i due terzi vi persero la vita in seguito alle sevizie, allo sfinimento o alle malattie. [...]

Per gli zingari e gli ebrei la <<ripulitura dello spazio vitale>> significò lo sterminio allorché vennero abbandonate altre soluzioni quali l’emigrazione, la deportazione o il confino in riserve. A differenza di altre popolazioni, in questo caso la violenza nazista si accanì su intere famiglie: il genocidio non consente infatti eccezioni per i singoli. Una distinzione, questa, di essenziale importanza che conferma la specificità dello sterminio attuato contro gli ebrei.

(P. Burrin, "La violenza congenita del nazismo", in H. Rousso (a cura di), Stalinismo e nazismo. Storia e memoria comparate, Torino, Bollati Boringhieri, 2001, pp. 116-119 e 124. Traduzione di S. Vacca)

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