Vittime e autori di reato

01.03.2016

Vittime e autori di reato

Un incontro “straordinario nella testimonianza di Claudia Francardi e Irene Sisi”, fondatrici dell’associazione Amicainoabele, la prima vedova del carabiniere Santarelli e la seconda madre del ragazzo che lo ha ucciso, perché “le due donne, oggi amiche, rappresentano la prova che l’incontro tra diverse drammatiche sofferenze è possibile”.

 

A sostenerlo è Desi Bruno, Garante delle persone private della libertà personale della Regione Emilia-Romagna e organizzatrice insieme alla Fondazione vittime di reato del convegno “Vittime e autori di reato: un incontro possibile?” del 23 febbraio.

 

“Da una parte è necessario sostenere la vittima del reato accompagnandola prima durante e dopo il processo penale con saperi che ancora oggi non hanno trovato sufficiente riconoscimento, neppure normativo, dall’altra assicurare il corretto accertamento della responsabilità individuale- prosegue la figura di Garanzia dell'Assemblea legislativa-, l’umanizzazione della pena, poi, favorisce il processo di responsabilizzazione delle persone condannate a cui devono essere assicurati programmi di giustizia riparativa che aiutano la collettività ad accettare gli autori di reato e le vittime a guardare al futuro”.

 

L'incontro nasce dalla volontà di rispondere a una lunga serie di domande, spiegano gli organizzatori: È davvero possibile un incontro tra la vittima e l’autore di un reato? In che modo il sostegno alle vittime e l’amministrazione della giustizia possono favorirlo, traendone linfa e illuminando di nuovi significati l’esperienza di chi riceve e di chi provoca tale dolore o disagio? Quali sono i luoghi e le forme idonee perché ciò avvenga senza compromettere il corretto accertamento delle responsabilità individuali e senza comprimere il diritto al giusto processo e all’umanizzazione della pena nei confronti dell’autore di reato, così come senza strumentalizzare la persona offesa ma facendosi carico delle sue necessità a prescindere dall’evoluzione del percorso di incontro?

 

Tutto il materiale su “Vittime e autori di reato: un incontro possibile”.

 

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Il resoconto della mattinata – a cura della Fondazione delle vittime di reato

 


Durante la mattinata Claudia e Irene hanno ricostruito il loro stato d’animo nel momento in cui hanno deciso di mettersi in contatto, i motivi di questa scelta, cosa ha comportato. Hanno raccontato come si siano strette e riconosciute nella comune disperazione, diversa ma ugualmente profonda. Come siano riuscite a trovare forza da questo loro incontro, riconoscendosi custodi di una sofferenza indicibile cui il processo penale non dà spazio, non quello giusto almeno.
Dice Claudia: «La giustizia non basta, usa delle categorie. Noi avevamo bisogno di parlare di noi. Il fatto di testimoniare pubblicamente il nostro incontro è dettato dalla volontà di mostrare che non c’è solo vendetta. Giustizia è un’altra cosa. Spero che Matteo (il figlio di Irene NdR) possa cambiare, essere un’altra persona. Dà dignità a me e dà dignità ad Antonio, che quella mattina quando l’ha fermato voleva salvare la vita a Matteo, fargli capire che la sua vita è preziosa e non doveva buttarla via».
Un’amicizia, quella tra Claudia e Irene, che ha permesso di fare un passo in avanti, di ricostruire le proprie identità a partire dal riconoscimento della comune sofferenza. Racconta Irene: «Quando ho visto in che condizioni era Antonio ho capito. Veramente. Non era più un nome scritto su un giornale. Volevo scappare, ma non c’era via d’uscita se non sentire e vedere il dolore di Claudia e Antonio. Qualche giorno dopo sono andata a trovare mio figlio e gli ho detto tutto. Gli ho detto di pregare perché Antonio potesse andarsene via, e non importa se questo avrebbe reso necessariamente più dura la condanna di mio figlio».
Nessuna retorica e nessun compiacimento nelle loro parole. Traspare tutta la fatica e tuttavia la determinazione di perseguire una strada profondamente radicata nei valori e nelle scelte di Claudia e Irene ma con indubbi riflessi nei comportamenti concreti. È irrituale Irene che chiede al suo avvocato di difendere il ragazzo «solo per ciò per cui davvero era difendibile, senza trucchetti», e lo è ugualmente Claudia quando, alla pronuncia della prima sentenza, viene assalita da un malore perché quell’ergastolo era impedire la speranza, era la vendetta di Stato, e lei non lo voleva.
Il giorno dopo quella prima sentenza, successivamente commutata in una pena a 20 anni, Irene e Claudia si sono sentite al telefono. La prima preoccupazione, la prima domanda: «Come sta Matteo?». Per poi scoprire che Matteo, intanto, si preoccupava per Claudia e per la sua famiglia. «Quando uno si preoccupa per l’altro, veramente è successo qualcosa di grande».
Oggi Matteo sconta la sua pena agli arresti domiciliari in una comunità di don Mazzi. È iscritto all’Università e vuole diventare un educatore per permettere ad altri ragazzi come lui di cogliere un’altra possibilità. Claudia e Irene, intanto, si considerano «sorelle» e insieme hanno dato vita ad un’associazione, AmiCainoAbele, con la quale vogliono rendere tangibile la loro scelta e a tutti parlare di riconciliazione.