Le parole per i diritti umani. Storie di giornalisti e reporter nel mondo

I pericoli per i giornalisti in guerra, qualche storia e la tutela giuridica

Battersi per i diritti umani è difficile. Farlo con le parole ancora di più. Perché anche se ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione, “di comunicare informazioni o idee senza limiti di frontiera” (Carta dei diritti fondamentali dell’UE, art. 11) spesso chi lo fa è preso di mira da governi dittatoriali, gli stessi che si trovano messi in discussione sulle pagine dei giornali o in rete. Giornalisti, blogger, o semplici cittadini-reporter che documentano ingiustizie e atrocità vengono oscurati, repressi, messi a tacere prima con la censura, e poi con la morte se ancora insistono.

E questo perché il potere della carta stampata e ora della rete è diventato così forte che i governi dittatoriali si vedono minacciati e rispondono con l’unica arma che possiedono: la forza. E alla fine lo scontro è duro, libertà di espressione contro armi e prigionia: chi vincerà? Per ora c’è una triste classifica che riguarda l’anno 2008 e alcune storie da raccontare… Eccone qualcuna.

La prima storia del 2009: Uma Singh - Uma Singh era una giornalista nepalese, che si batteva per i diritti umani nel suo paese, governato recentemente dai maoisti dopo un lungo periodo di guerre civili, ma ancora segnato da rivalità tra gruppi e bande all’interno delle regioni. Uma lavorava per una radio locale, scriveva per un giornale ed era nota per il suo impegno nei confronti dei più deboli: le donne e le famiglie più povere. Il suo ultimo articolo denunciava proprio la situazione di molte famiglie a Kathmandu, rimaste senza casa, né niente, e le false promesse del governo che avrebbe dovuto restituire quanto prima le loro abitazioni. Uma si era concentrata sul destino di 80 famiglie della sua provincia e sulla figura del ministro maoista al quale era affidato il teorico compito delle restituzioni. Il 12 gennaio 2009, Uma è stata pugnalata nella sua casa davanti ai familiari da sconosciuti. Uma era nota per i suoi articoli e commenti scomodi. Per molti è ancora un mistero la sua morte. Per altri no. Uma aveva 25 anni.

La triste classifica del 2008 - Secondo Reporters sans frontieres i giornalisti che sono stati uccisi nel 2008 sono 62 (e nel 2009 siamo già a quota 10: una delle prime è proprio Uma Singh). Il numero cala rispetto al 2007, dove erano ben 107, ma questo non vuol dire che circoli maggiore libertà di espressione. Al contrario: i metodi di censura sono diventati sempre più sofisticati visto che governi e dittature devono fare fronte a un mezzo nuovo e sempre più potente come Internet. In questa triste classifica l’Iraq conta 15 giornalisti uccisi, il maggior numero di vittime, anche se minore rispetto a quello dell’anno scorso (50). Gli altri paesi più pericolosi per i giornalisti rimangono il Pakistan (dove nel 2008 sono state uccise 7 persone), le Filippine (6) e il Messico (4). Rispetto a questi paesi, l’Africa conta un numero minore di vittime, ma il calo rispetto allo scorso anno da 12 a 3, è dovuto soprattutto al fatto che molti giornalisti hanno semplicemente smesso di lavorare in questi paesi. Hanno preferito andarsene in esilio o a lavorare in un altro continente, oppure hanno abbandonato la loro battaglia anche a causa della graduale scomparsa di strumenti e mezzi di comunicazione nelle zone di guerra (è il caso della Somalia). Rimane comunque alto il numero di arresti (673) e di rapimenti (29) soprattutto in Afghanistan e Somalia. Ma, come sottolinea anche Reporters sans frontieres, è il canale Internet, ancora più veloce e potente della carta stampata, quello che subisce sempre più controlli e censure da parte di governi e dittature. Il primo blogger è stato ucciso proprio nel 2008, 59 sono stati arrestati, 1.740 siti sono stati oscurati. Il regime cinese è quello che più teme minacce dai blogger: ben 10 sono stati arrestati, 31 sono stati fisicamente attaccati o minacciati e 3 costretti a cessare la propria attività. Tra queste anche Zeng Jinyan, una delle blogger più conosciute e famose (è tra le 100 persone più influenti secondo il Time americano), moglie tra l’altro di un altro attivista per i diritti umani: Hu Jia, Premio Sacharov 2008, che ha “festeggiato” la sua nomina in carcere. Anche Zeng è agli arresti – domiciliari però - ed è chiusa in casa con sua figlia, sorvegliata dalla polizia cinese che a quanto pare teme molto questa famiglia di attivisti –soprattutto da quando la Cina con le Olimpiadi si è spostata sotto i riflettori mondiali. Zeng continua tuttora a scrivere per il blog raccontando la sua vita sotto sorveglianza e aspettando che suo marito, colpevole di aver parlato dei problemi della sua gente, torni a casa.

A tutela dei giornalisti - In Europa esistono giornalisti e giornalisti. Corrispondenti di guerra, reporter, inviati in zone a rischio. In Afghanistan e in Iraq spesso i giornalisti sono affiancati alle milizie (i cosiddetti giornalisti embedded) ed è raro che si avventurino da soli se non vogliono rischiare di essere uccisi. Ma non esistono solo guerre da raccontare, anche zone calde dove non ci si può appoggiare a nessuno e il giornalista deve cavarsela per forza da solo. In questi casi la sua unica protezione è data dal trattato di Ginevra del 1949 che tutela i giornalisti considerandoli alla stregua dei civili. Un Protocollo aggiuntivo alla Convenzione del 1977 accorda poi ai giornalisti una protezione speciale (“a condizione che si astengano da qualsiasi azione ledente il loro statuto di persone civili”) nonché una carta d’identità speciale, rilasciata dal loro Stato, che riconosce la loro qualifica di giornalisti. Ma davanti a soldati, sicari o nemici, la carta vale poco. Negli anni ’80 l’Unesco propose una sorta di Commissione internazionale di protezione dei giornalisti che vigilasse sul loro operato e li aiutasse in zone pericolose, ma il progetto venne bocciato in quanto sarebbe sembrato un trattamento inutilmente privilegiato. Esistono però associazioni ed organizzazioni a livello internazionale (INSI, IFJ, IPI), nazionale (FNSI, Inpgi) che combattono per la tutela dei giornalisti – che sicuramente rivestono un ruolo speciale nella comunicazione e come tali dovrebbero essere protetti -, e soprattutto per garantire la libertà d’espressione – valore che dovrebbe essere universalmente riconosciuto. E quindi in sostanza, al giorno d’oggi, cosa può fare un giornalista o un reporter che vuole documentare ingiustizie e atrocità? Due cose: o il giornalista embedded registrandosi da una delle due parti del conflitto, e in questo caso se è catturato diventa prigioniero di guerra, oppure può raccogliere informazioni in giro, come tutti i civili, con una carta d’identità speciale a sua protezione, più o meno inutile. E se non è giornalista, ma un semplice cittadino che vuole semplicemente raccontare e documentare i fatti? In alcuni casi e in alcuni paesi è ancora più rischioso.

2008-La storia di Wei Wenhua, cittadino-reporter - Wei Wenhua non era un giornalista. Era un dirigente di un’impresa edile e aveva 41 anni. Wei stava viaggiando in auto con un amico nei pressi delle campagne di Tian an men quando lungo la strada si imbatte in decine di contadini che protestavano perché venivano scaricati rifiuti nei loro campi. Wei si accorge che i cosiddetti vigilantes (funzionari cinesi del governo) che dovrebbero teoricamente occuparsi dell’ordine pubblico, ad un certo punto per sedare la protesta iniziano a picchiare i contadini. Purtroppo nelle campagne cinesi questi pestaggi sono frequenti, ma Wei Wenhua rimane comunque colpito dall’ingiustizia e dalla violenza di tale reazione e decide di filmare la scena con il suo telefonino per documentare tutto. I vigilantes si accorgono di lui e gli chiedono – ordinano - di consegnare loro immediatamente il telefonino. Wei naturalmente si rifiuta. Da cittadino libero, come crede di essere, non accetta ordini di questo tipo. I vigilantes non possono subire un simile affronto e lo picchiano selvaggiamente fino alla morte. Distruggono anche “l’arma”: il telefonino testimone. Così non rimane nessuna prova. “Fortunatamente” la storia di Wei Wenhua non finisce così. L’amico riesce a scappare, decide di rivolgersi a dei giornalisti onesti, e racconta tutta la storia che esce su alcuni quotidiani locali. Le autorità non riescono a bloccare la notizia che gira su altri giornali nazionali causando sdegno e indignazione generale. Pur senza attribuire le responsabilità dell’accaduto verso l’alto, i giornalisti denunciano le colpe di quei vigilantes che vengono arrestati. Questo non ha cambiato lo stato delle cose in Cina: le violenze nelle campagne continuano, il regime autoritario censura e controlla, i vigilantes/funzionari amministrano l’ordine pubblico con le armi. Ma un passo importante per la libertà di informazione è stato fatto. E l’ha fatto Wei Wenhua, il primo cittadino reporter che è morto per documentare una notizia.

Francesca Mezzadri - gennaio 2009

Il sito di Reporters sans frontieres
Il sito di Information, Safety and Freedom

Azioni sul documento