Difendere i diritti di tutti per una società aperta

18.02.2013

Difendere i diritti di tutti per una società aperta

Trattando di “pari opportunità e luoghi aperti” viene spontaneo incominciare proprio dalla parola “apertura”, un termine che le è caro e che lei spesso cita nei suoi interventi. Uno dei suoi maestri, Aldo Capitini, intendeva l’apertura come sinonimo di accettazione dell’altro e accoglienza delle differenze.

È un obiettivo che ho costantemente presente proprio perché in quanto Difensore civico vengo interpellato di fronte al suo opposto: chiusura, negazione. Negazione di diritti, certo, ma anche di interessi e opportunità, con particolare riferimento a quelle che, nella legge istitutiva del Difensore civico, vengono indicate come “fasce deboli” e sono poi i portatori di handicap, gli stranieri, le persone più vulnerabili. Quello che faccio è cercare di affrontare al meglio le situazioni che mi vengono segnalate e di sollevarne altre, anche in collaborazione con la Rete regionale contro le discriminazioni.

Interventi in questo senso sono rintracciabili in tutte le sue relazioni annuali. Ci sono però azioni specifiche che lei ritiene di segnalare?

Abbiamo pubblicato da poco, ed è disponibile gratuitamente presso il mio ufficio, la seconda edizione del Codice contro le discriminazioni che raccoglie tutte le normative internazionali, europee, italiane e della nostra Regione in materia di uguaglianza.

Proprio dall’esperienza di contrasto ad ogni forma di discriminazione – quelle dirette o indirette, immediatamente percepibili oppure ben percepite solo da chi è chiamato in causa ma invisibili alla maggioranza – nasce la consapevolezza che è decisivo agire per aumentare la capacità di esercizio dei diritti da parte delle persone in difficoltà. Paulo Freire parlerebbe di favorire processi di coscientizzazione, che poi significa dare supporto a chi già svolge una funzione di aiuto agli altri. Abbiamo provato a farlo nel rapporto con il terzo settore, con l’importante collaborazione dei CSV di tutta la regione.

Bologna, Rimini, Modena. Dove ha potuto proporre ai CSV e alle associazioni collaborazioni più intense ha scelto la forma del laboratorio. Anche questo ha un significato in una logica di apertura.

La modalità laboratoriale è quella che più consente l’effettiva partecipazione degli intervenuti con il loro contributo di conoscenze ed esperienze, cosa che con altre modalità quali la conferenza o il dibattito sarebbe stato meno possibile. Per dirla ancora con Aldo Capitini, grande promotore di luoghi di confronto politico e religioso in tutta Italia nell’immediato dopoguerra, “chi può parlare ascolta con maggiore attenzione”. 

Tra i suoi interventi ce ne sono alcuni più strettamente connessi all’idea di aprire ciò che è chiuso. Penso alla sua collaborazione con la Garante regionale dei detenuti, con cui condivide l’attivazione di uno sportello di informazione legale presso il CIE di Bologna e, presto, anche presso quello di Modena.

L’intervento al CIE ha un primo obiettivo, quello di segnalare persone per le quali la permanenza nel Centro risulta intollerabile sotto profili differenti. Penso a casi di cittadini stranieri gravemente ammalati che anche in seguito alla nostra segnalazione sono stati liberati e condotti in luoghi di cura, o a persone trattenute senza titolo legittimo che sono state rilasciate.

Anche da questa esperienza si ricava l’esigenza di superare la risposta dei Centri di Identificazione ed Espulsione, che hanno sostituito i Centri di Permanenza Temporanea senza riuscire ad assolvere alla funzione che si propongono – né identificare né espellere –, quale che sia il giudizio che si dà di questa funzione. Questa consapevolezza che si fa faticosamente strada, sommersa da paure e pregiudizi e dall’uso che politici ne fanno, non sarebbe possibile se non si fossero praticate delle aperture nella chiusa realtà dei CIE. Solo ora si pone ad esempio un tema che ho sollevato da tempo, quello di controlli sanitari affidati all’AUSL competente e non ad una sanità separata, come se i CIE fossero realtà avulse dal territorio.

Proprio in questi mesi ha in atto una indagine un po’ particolare: una ricognizione sulle esperienze di superamento dei campi nomadi in Emilia Romagna. I campi sono rappresentati come luoghi aperti per persone che in condominio si sentirebbero prigioniere, e al tempo stesso luoghi dove permangono legami di comunità tra famiglie. Eppure il loro superamento è indicato dalla Strategia nazionale d’inclusione dei rom, sinti e caminanti, ed anche in molti suoi interventi, come condizione di maggiore libertà.

Può esserlo. Il campo rinchiude e separa una comunità emarginata, in luoghi essi stessi emarginati e che non lo sono mai abbastanza, giacché la loro presenza produce proteste dei vicini “normali”. Di più, oltre ad essere un luogo chiuso permette e promuove contatti con persone a loro volta emarginate e favorisce forme di occupazione precarie, quando non direttamente illegali.

Abitare come la maggioranza, così come andare nella scuola di tutti, costringe a un confronto più aperto tra realtà diverse. Ecco perché l’appartamento è in realtà più aperto del campo.

Può dirsi soddisfatto del suo lavoro?

Certo, molte cose abbiamo provato a farle. E imboccando questa strada si coglie tutto il limite delle forme di assistenza sociale, medica ed anche giuridica, come può essere la mia, se non rendono direttamente protagoniste le persone in difficoltà. È invece necessario che ciò avvenga in modo che cittadini tra i cittadini possano costruire una convivenza più aperta. Ma perché questo sia possibile è indispensabile che vengano loro offerte opportunità neppure pari a quelle della maggioranza, perché occorre rimediare a svantaggi, e dunque opportunità maggiori affinché cadano muri e separazioni, e i luoghi dell’incontro siano effettivamente aperti e praticati.

 

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