Per chi-ama il Senegal

Intervista all'associazione ChiAma il Senegal

C’è chi viaggia per divertirsi. Chi viaggia per lavoro. Chi viaggia suo malgrado. C’è chi lo fa per avere compagnia. Chi lo fa per rilassarsi. C’è chi viaggia chiudendo gli occhi. E c’è chi lo fa per scaricare tensioni. E poi ci sono tutti coloro che viaggiano per scoprire nuovi luoghi e incontrare persone, in un’ottica di curiosità, apertura e rispetto, e mantenendo viva una rete di solidarietà e cooperazione. L’associazione “ChiAma il Senegal” di Imola organizza viaggi in alcuni paesi dell’Africa per questo tipo di persone. Viaggi che oltre a regalare l’emozione della scoperta, sostengono associazioni locali, buone cause e soprattutto favoriscono il turismo del luogo, incentivando l’economia africana.

"Se dici “vado in Senegal” la gente ti chiede “ma che ci vai a fare in Senegal, cosa c’è?”. Però poi quando torni, è tutto il contrario perché ti sei arricchito. E’ diverso dal turismo classico dove vai nei grandi alberghi, fai un bagno in piscina, mangi spaghetti e la sera vedi un po’ di folklore nell’hotel: lì non conosci nulla del paese. Invece nei viaggi che organizziamo sei a contatto diretto con la popolazione", conosci il vero Senegal.

A parlare è Alex M. Sarr, senegalese e presidente dell’associazione “ChiAma il Senegal”. Si occupa di turismo responsabile ma non solo. L’associazione fa parte di “ChiAma l’Africa” e quindi l’intento è anche quello di sostenere l’economia e la cultura africana.

Intervistiamo Alex M. Sarr, nella sede della sua associazione e intanto lui ci prepara un tè alla menta (che non è come quello che ho gustato in Senegal perché anch’io ho avuto la fortuna di viaggiare con ChiAma il Senegal). Mi rivolgo a lui come a un compagno di viaggio, perché in effetti abbiamo passato insieme 10 giorni nei quali mi ha fatto scoprire un paese, ma non solo. Calvino ne “Le città invisibili” aveva scritto che “Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà”. Io posso dire che in Senegal ho scoperto una realtà a me sconosciuta, e nel farlo, ho anche capito un po’ che cosa davvero mi riguarda.

Ma ora l’intervista la dobbiamo fare a lui, non a me...

Alex, come hai iniziato i tuoi viaggi?

Sono arrivato nel 1990, ricordo che non c’erano ancora tutti questi problemi del visto, sono entrato direttamente dal Senegal a Roma. Dopo alcuni mesi ho iniziato a collaborare con un’associazione che si trovava a Napoli “Napoli Europa”: lì lavoravo come mediatore culturale andando nelle scuole parlando di varie tematiche inerenti all’Africa e all’Europa. Poi, nel 1996, ho avuto l’opportunità di incontrare “Chiama l ‘Africa”.

Cos’è “Chiama l’ Africa”?

“Chiama l‘Africa”, è …un’associazione di associazioni. Eravamo più di 100 persone, ora ci sono un’ottantina di associazioni. Lo scopo era portare avanti una campagna di sensibilizzazione sul continente africano perché quando si parlava e si parla di Africa si arriva sempre a discutere di malattie, fame, guerre…si mostrano bambini con pance gonfie, ecc… “Chiama l’Africa” vuole far vedere anche un’altra immagine del continente africano.
L’associazione organizza iniziative nelle scuole per parlare di paesi africani come Rwanda, Congo, e per offrire soluzioni di pace. E poi porta avanti delle campagne in parlamento, per esempio quella del Premio Nobel alle donne africane.
Ricordo che quando ho iniziato a lavorarci nel 1996 siamo partiti con una mostra itinerante.

Com’era questa mostra itinerante?

La mostra si chiamava “Arriva l’Africa” appunto, e si spostava su 3 camion in tutte le piazze italiane. Questi camion hanno percorso più di 70.000 km; siamo stati in più di 50 città. I camion, allestiti al loro interno con pannelli di mappe del continente africano e di 440 foto volti di africani, venivano montati in ogni piazza e prevedano anche spazi per concerti e dibattiti rassegne di cinema africano.. Non solo dentro la mostra, ma anche fuori in quei giorni la città era animata. Poi dopo una settimana smontavamo tutto e facevamo il montaggio da un’altra parte. Ho passato 2 anni a girare così. E poi dopo quando abbiamo finito questo lungo giro dell’Italia sono capitato ad Imola.

E la tua idea è nata anche grazie a questa carovana itinerante…

Sì, perché con Arriva l’Africa ho incontrato milioni di persone in queste piazze e loro mi chiedevano sempre come era l Africa, com’era il Senegal. E io rispondevo: “Un giorno ve la farò visitare…”E così quando abbiamo finito con la mostra ho detto “Ma insomma, dopo aver incontrato tutta questa gente perché non inizio a organizzare viaggi di turismo responsabile..”. E così nel 2000 sono partito in quest’impresa di ChiAma il Senegal con altre 3 persone. Dopo il primo viaggio abbiamo continuato man mano ed è aumentato il numero di persone, anche grazie al passaparola.
Non sapevo nulla di turismo responsabile, sapevo solo che non mi piaceva come si faceva turismo nel modo classico e che io volevo far vedere la mia Africa, il mio Senegal in un altro modo.

In che “modo” si può conoscere il Senegal?

L’obiettivo è partire non tanto dagli itinerari ma dal rapporto umano con la società civile. Innanzitutto i turisti sono viaggiatori che visitano e scoprono i luoghi e le realtà grazie alle guide senegalesi. E’ un’esperienza del dare e del ricevere: gli ospiti sostengono e in questo modo conoscono personalmente i progetti che l’associazione promuove.
Abbiamo realizzato i vari progetti: dal kit anti-malaria all’adozione scolastica per le bambine di Pikine, al sostegno all’orfanotrofio di Mboro, al centro polivante per handicap, al sostegno al Coflec…
E poi facciamo parte di CISPI (Coordinamento Iniziative popolari e Solidarietà internazionale) con i quali condividiamo valori e impegno.

Quindi non si tratta solo di organizzare viaggi, ma anche di sostenere progetti di solidarietà

Sì, una percentuale della quota dei viaggiatori viene ceduta per finanziare dei progetti. Nel 2003 abbiamo iniziato a lavorare con un’associazione di Pikine, quartiere di Dakar, chiamata Jant.bi su due progetti. Il primo era la prevenzione della malaria, e con questo sostegno finanziario, Jant.bi ha iniziato a comprare le zanzariere e i medicinali per i 17.500 abitanti del quartiere. Il secondo progetto riguarda l’adozione e il sostegno scolastico alle bambine.
Perché da noi in Africa sono le bambine le prime a rimetterci quando le famiglie hanno dei problemi: devono spesso lasciare la scuola per lavorare a casa. Adesso invece, grazie al lavoro di Jant.bi, 200 bambine sono state adottate e 87 di loro vanno già alla scuola media e nessuna ha abbandonato gli studi.
Durante il viaggio facciamo anche conoscere queste bambine ai nostri viaggiatori, i quali possono toccare con mano i progetti di cui si parla.

Jant.bi ora ha anche dato vita ad un asilo per bambine e bambini che organizza attività ludiche e didattiche. Quando sono andata a visitare la sede durante il mio viaggio con “ChiAma Il Senegal”, il presidente ci ha spiegato i lavori in corso, con l’orgoglio di un padre che presenta i suoi figli. Un progetto teatrale con i ragazzini, una squadra di calcio con i più piccoli. Ci ha anche fatto visitare le classi appena ritinteggiate da alcuni volontari e con tutti i palloncini colorati appesi al soffitto. Alcune ragazzine ci hanno offerto il tè mentre alcuni bambini palleggiavano lì nei dintorni. E’ stato uno dei momenti più belli.

Non si “aiuta” solo con la quota del viaggio...

No, non è solo quota. Quando i nostri viaggiatori tornano in Italia, continuano a sostenere i nostri progetti, come quello di Pikine : è la cosa più bella e importante.
Io dico sempre che ci sono 3 momenti: l’ incontro che si fa prima del viaggio dove ci si conosce e si spiegano i progetti, il viaggio stesso e infine la fase più importante, quella dopo il viaggio.
Non perdiamo mai i contatti dopo il viaggio. Inizialmente ci si rincontra per scambiarsi le foto. Ma poi anche per continuare a sostenere i progetti e per i convegni internazionali di “Chiama l’Africa” dove invitiamo tutti quelli che hanno fatto viaggio dal 2000.
Il prossimo sarà ad Ancona il 25 maggio.

Così come “ChiAma il Senegal” fa parte di “Chiama l’Africa” ma è diverso perché si occupa di turismo responsabile, così fa parte di AITR (Associazione Italiana Turismo Responsabile) ma anche qui è diverso.

Sì, facciamo parte anche dell’AITR: io sono stato il primo e l’unico africano iscritto, nonché presidente di un’associazione, quando ho iniziato io erano tutti italiani e anche le guide per i vari viaggi in Africa erano tutte italiane, adesso dopo 10 anni le cose mi auguro siano cambiate e forse qualche associazione si avvale di guide locali, ma non credo che per il coordinamento sia lo stesso.
Le nostre guide sono ragazzi che hanno lavorato con Alpitour e da quando hanno scoperto il turismo responsabile non vogliono lavorare con altre catene turistiche, ovviamente si sentono più coinvolti, sentono di avere un ruolo fondamentale anche per il loro paese e non manca il sentimento di amicizia che si instaura con i viaggiatori, il rapporto umano insomma, che manca in altri contesti.

Io posso dire che sono a cavallo tra le due culture e che cerco di far fare formazione agli africani, anche per creare occupazione nel paese. Mi organizzo così anche per i trasporti, gli alloggi, in modo da sostenere le imprese africane...
E poi è importante dire che con noi i viaggiatori sono considerati come ospiti, mai turisti e per questo la disponibilità e l’accoglienza nei loro confronti è sacra . Vivono anche la quotidianità, sono spesso con la popolazione, mangiano con loro…

Non solo viaggi, ma anche esperienze di volontariato…

Sì, organizziamo anche quelle, e sono più lunghe e rivolte a ragazzi più giovani. Per esempio quest’estate alcuni ragazzi dai 18 ai 26 anni che facevano il servizio civile hanno anche ridipinto i la scuola di Pikine e sono stati con i bambini.

Tra le campagne che l’associazione porta avanti c’è quella per sostenere il Premio Nobel per la Pace alle donne africane. Perché lo meritano, secondo te?

Le donne africane meritano il Nobel alla pace perché se l’ Africa si svilupperà sarà solo per merito delle donne e del loro lavoro nelle famiglie, nel curare i bambini, nel fare tantissimi chilometri per portare l’acqua nei villaggi ogni giorno… In Senegal vige la poligamia e alla fine sono sempre le donne che pensano alla famiglia e a tutti i figli. Nei conflitti il processo di pace è un’azione portata avanti dalle donne, così come l’economia informale grazie ai sistemi di microcredito e alle cooperative.

Con gli ospiti di “ChiAma Il Senegal” sosteniamo anche la cooperativa Coflec e Yayi Bahiam Diouf, la sua presidente. E’ una donna in gamba, originaria di un villaggio dove hanno perso più di 300 ragazzi che si sono imbarcati per cercare fortuna in Europa. Lei ha creato una cooperativa con le altre donne del villaggio che hanno perso i loro figli, seppur con grande difficoltà perché gli uomini non volevano. Lì dicono sempre che è tutto è colpa delle donne. La malattia è colpa delle donne, l’emigrazione è colpa delle donne. Lei ha lottato molto. L’abbiamo invitata anche qui in Emilia Romagna l’anno scorso. E’ una donna davvero in gamba. (vedi articolo su Coflec e Yayi Bahiam Diouf).

“ChiAma l’Africa” sta raccogliendo due milioni di firme per sostenere donne come lei: abbiamo depositato la candidatura il primo febbraio, abbiamo già organizzato due seminari a Dakar nel 2008 e nell’ottobre del 2010.
L’Africa cammina con i piedi delle donne: se vedi il logo della campagna c’è la donna africana che porta il continente sulla propria testa.

A proposito di donne e uomini: tu sei l’unico uomo di ChiAma Il Senegal?

Ah sì, è vero. Siamo in 5 , io e Nadia siamo a Imola, poi ci sono altre 3 ragazze a Roma.
Però la maggioranza delle guide africane sono ragazzi: ci sono Omar, Landry, Chico e Ousmane. Solo Phiilomene è una donna. Ah e poi anche il 70% dei nostri soci sono donne!

ChiAma il Senegal ma non solo il Senegal vero?

Dopo qualche anno, a furor di popolo, gli amici mi hanno detto che l’Africa non è solo il Senegal. E così ho pensato di organizzare altri viaggi: nel 2004 in Marocco e nel 2007 in Mali. Facciamo più o meno 8 viaggi all’anno in tutto, per gruppi di 12/13 persone.
Non è facile preparare un viaggio di turismo responsabile: bisogna andarci come minimo 2-3 volte, stabilire un percorso, vedere le strutture, incontrare le realtà locali e le associazioni più e più volte…
Qualche tempo fa ho conosciuto il presidente di un’associazione argentina che fa cose interessantissime e di cui c’è davvero un gran bisogno, forse a giugno ci incontreremo là e poi vedremo…anche lì le donne giocano un ruolo fondamentale.

Infine, perché consiglieresti un viaggio di turismo responsabile?

Perché più che un viaggio, è un’esperienza di umanità: sono percorsi nati per incontrare la gente, vivere la quotidianità, scoprire nuovi luoghi insieme. E’ un appuntamento del dare e del ricevere, come dico sempre, uno scambio, un arricchimento. Dopo il viaggio anche gli ospiti diventano un po’ come degli ambasciatori e allora alla domanda “cosa ci sei andato a fare in Senegal?”, sapranno bene cosa rispondere.

Infatti anch’io ora so cosa rispondere e sono ambasciatrice.

Intervista a cura di Francesca Mezzadri e Alessio Vaccaro
marzo 2011

 

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