Questione di tempi

Intervista alla Casa dell’Agave di Bologna

C’è un tempo umano e un tempo istituzionale. Il tempo umano per affrontare nuove prove e il tempo istituzionale richiesto per farlo. Quando si parla di progetti finanziati da fondi statali si tiene conto giustamente solo di quello istituzionale. Ma quanto tempo ci vuole per riuscire ad integrarsi in un paese completamente diverso dal tuo? Quanto tempo ci vuole per dimenticare un passato di guerra e violenza? E’scritto da qualche parte? Patrizia, l’operatrice che lavora per la Casa dell’Agave di Bologna all’interno di un progetto SPRAR di assistenza temporanea ad alcune donne richiedenti asilo, dice così...

"Si tratta di un ottimo progetto, ma ovviamente ci sono delle scadenze che dobbiamo considerare e che spesso richiedono alle donne in causa enormi sforzi".

"Perché c è un tempo umano nel quale una donna che viene da un passato difficile, magari di enorme sofferenza, può apprendere una lingua, e c’è anche un tempo istituzionale per il quale si dice che una donna di 40 anni deve apprendere una lingua”.
Patrizia si riferisce alle 5 donne che sono ospitate con i loro rispettivi 5 figli alla Casa dell’Agave, in via San Leonardo, una delle strutture gestite dall’Associazione Mondo Donna e convenzionate dal Comune di Bologna per portare avanti uno dei progetti SPRAR nazionali.

Da 6 mesi a 1 anno è il tempo richiesto a queste donne africane, tutte richiedenti asilo con figli a carico, per raggiungere la loro completa autonomia. Non è poco: è in effetti il tempo che qualsiasi istituzione riconosce per situazioni come queste. Queste donne, più o meno giovani, hanno quindi 1 anno di tempo (al massimo) per imparare l’italiano, inserirsi nell’ambiente, essere in grado di interagire con la società e trovare un lavoro e una casa dove abitare con i proprio figli.

In tutto questo periodo saranno ospitate nella Casa dell’Agave, avranno soldi per mangiare e vivere, ma dovranno seguire corsi di alfabetizzazione, fare colloqui e corsi, mentre i loro figli andranno a scuola. Non saranno sole: saranno ovviamente aiutate nel loro percorso dalle operatrici della Casa dell’Agave. Ci sono Letizia e Patrizia, Loretta Michelini, presidente dell’Associazione, una counselor che serve come sostegno psicologico e una psichiatra etnica che fa da supervisore al progetto. In più c’è una custode notturna, ex richiedente asilo, proveniente da un altro centro gestito da Mondo Donna.
Le ragazze africane hanno firmato un contratto che le impegna per questi mesi. Se non frequentano i corsi o si rifiutano di partecipare alle attività previste, escono dal progetto.
“Il progetto è nazionale e ha regole molto precise” spiega Letizia.

Il progetto SPRAR - Ma cominciamo dal suo nome. SPRAR. Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati.
Il termine rifugiato è apparso per la prima volta nella Convenzione di Ginevra del 1951 ma c’è gente che ancora fa confusione con richiedente asilo. Rifugiato è colui che vive al di fuori del proprio paese perché lì teme di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale, o per opinioni politiche. Il richiedente asilo è invece colui che fa richiesta d’asilo in un paese per questi motivi e spera che gli venga riconosciuto lo status di rifugiato.
A livello europeo ancora non esiste purtroppo una politica comune per regolare gli standard minimi riguardo lo status di rifugiato –anche se l’obiettivo del Consiglio europeo è l’armonizzazione del sistema entro il prossimo anno.

In Italia la legge stabilisce che sia la rete degli enti locali, grazie ad un Servizio di centrale di coordinamento, ad accedere ed usufruire al Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell´asilo per attuare interventi di "accoglienza integrata". Interventi come quello della Casa dell’Agave. In tutta Italia ne sono attivi 138.

Percorsi - “Il nostro intervento è partito a luglio 2009” spiega Patrizia “Funziona così: il servizio Centrale di Roma decide quali persone tra i richiedenti asilo possono rientrare nel progetto SPRAR e le disloca nelle diverse strutture presenti sul territorio italiano.
In questo caso le persone sono state segnalate dal servizio Centrale alla rete di servizio per gli immigrati ASP di Bologna –che raccoglie i dati e le informazioni. E’ l’ASP che fa da smistamento per il territorio di Bologna: vede quali strutture sono più o meno adatte a seconda delle persone segnalate. In questo caso si trattava di donne che hanno subito violenze fisiche e psichiche e l’ASP ha contattato l’associazione MondoDonna, appunto la nostra, che ha una certa esperienza in fatto di accoglienza. Così queste 5 donne sono venute da noi con i loro figli a luglio e abbiamo iniziato a seguire insieme il progetto SPRAR che ha regole ben precise”.

Non per nulla: i fondi sono nazionali e devono rientrare all’interno del progetto. Servono per garantire vitto e alloggio alle donne ospitate (esiste un budget specifico che lo SPRAR dà ad ogni donna tramite la struttura ospitante: 45 euro mensili destinate a spese personali per la madre e 45 per il bambino e 100 euro mensili a testa per il cibo).
Inoltre la struttura ospitante ha il compito di predisporre per loro corsi di alfabetizzazione e, in seguito di inserimento socio-professionale, nonché di aiutarle nella vita di tutti i giorni e –infine- per la ricerca di un alloggio.
Un percorso lungo, me ne rendo conto anch’io. E difficile.

Storie lontane - Queste donne sono tutte straniere, 3 di loro provengono dalla Nigeria, 2 –tra cui quella più “anziana” (ha 40 anni) dalla Somalia. Hanno storie diverse alle spalle, ciò che le accomuna sono le violenze che hanno subito nel loro paese, il fatto di essere tutte madri e tutte senza marito –vedove o abbandonate.

In Nigeria nonostante la volontà del governo vigente di promuovere la parità di genere, la violenza sulle donne è frequente, specie quella domestica, senza contare le violenze sessuali da parte di funzionari statali e della polizia. Situazione ancora più difficile in Somalia dove, con un conflitto in corso, le donne sfollate o in fuga da Mogadiscio, vengono stuprate da soldati e banditi armati.

Questi sono i paesi da dove loro sono scappate. Probabilmente avranno anche affrontato un viaggio terribile, alcune saranno state chiuse nei centri di detenzione libici – destino comune a molti richiedenti asilo che poi arrivano in Italia. Probabilmente avranno viaggiato in uno di quei barconi che arrivano a Lampedusa - quelli reali, non quelli virtuali con i quali alcuni si divertono a giocare su Facebook, respingendoli con un tasto del pc.
Sono state comunque fortunate. Ma hanno ancora molta strada da fare.
“Alcune sono analfabete” spiega Letizia “la donna somala ha qualche difficoltà soprattutto per la lingua, le ragazze nigeriane meno, visto che sono più giovani”.
A tutte è richiesto un grande sforzo.

Mentre intervisto le operatrici, vedo le ragazze africane che girano per la casa – accogliente e spaziosa, con un bel giardino davanti. Sembrano timide. Nessuna vuole farsi fotografare, sono indaffarate a preparare da mangiare. Una ragazza giovane apparecchia la tavola con uno scialle-zaino sulle spalle dal quale spunta la testa di una bambina piccolissima. Non sono tutte in sala da pranzo: una di loro riposa di sopra con il suo bambino nato qualche giorno fa.

Magari con i bambini è più semplice?
“In realtà non è cosi semplice neanche con loro” mi spiega Patrizia “C’è una bambina che ora fa la prima elementare, ma non ha gli stessi strumenti comunicativi degli altri in classe con lei. Noi però ci stiamo attivando per cercare di aiutarla nel pomeriggio”.

La rete - Il sostegno e l’aiuto che danno le operatrici in questo percorso, sia alle donne, che ai loro figli, è fondamentale. C’è il corso di alfabetizzazione, punto di partenza per riuscire perlomeno a capirsi. “E poi è importante che conoscano i servizi del territorio. Servizi basilari come scuola e sanità. Le abbiamo portate a fare le prime visite mediche. Ma le accompagniamo anche al supermercato. Le lasciamo libere di esplorare il territorio, anche se c’è sempre una sorta di controllo. Le sproniamo a partecipare alle iniziative del quartiere. Non da ultimo cerchiamo di renderle consapevoli dei propri diritti di migranti, anche in termini lavorativi. Cerchiamo di far capire loro di che cosa possono usufruire. Ultimo step, dopo che loro sono riuscite a muoversi sul territorio: la casa”.

Il percorso finalizzato al raggiungimento della piena autonomia di queste donne, obiettivo ultimo del progetto, è attuabile anche e soprattutto grazie alla rete che si crea con tutti i servizi del territorio, come spiega Patrizia. Il centro Zonarini, il Faro, il centro servizi del Quartere San Vitale, le scuole, le agenzie interinali: tutti questi servizi collaborano per garantire un inserimento effettivo delle ragazze straniere.

L’integrazione è però un processo duplice che non coinvolge solo le richiedenti asilo ma anche il paese che le ospita. E ovviamente esistono delle difficoltà causate dalla mancanza di informazioni su queste situazioni. “Nei poliambulatori, nelle scuole… può capitare, ad esempio, che non tutti conoscano le specificità dello status di rifugiato”. Difficoltà operative che causiamo a volte anche noi con la nostra ignoranza.

Nel frattempo le donne ospitate dalla Casa dell’Agave fanno anche richiesta di asilo politico e l’ASP si occupa di guidarle nel rinnovo dei documenti di soggiorno e nelle pratiche. Potranno ottenere asilo politico, oppure protezione sussidiaria – vale a dire che pur non possedendo i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato, potranno comunque richiedere protezione al nostro Stato. Ovviamente se troveranno un lavoro e una casa, saranno facilitate nella richiesta.

Intrecci - Un anno. “Il progetto comporta tappe molto difficili per loro” spiega Patrizia “Ancora non sono autonome. C’è come una sorta di intreccio tra quello che dovrebbero essere e quello che possono fare. Bisogna chiedere a loro di sforzarsi tutti i giorni”.
Ognuna ha i suoi tempi che non necessariamente coincidono con quelli stabiliti a priori.

Questo progetto ha l’enorme pregio di aiutarle anche se ovviamente comporta delle scadenze. Nessuna critica sul fatto che le abbia: le deve avere. Ma teniamo conto, come fa Patrizia, che ci troviamo davanti a delle persone che hanno storie ed esperienze diverse, diverse reazioni e personalità.
Teniamone sempre conto perché non si tratta solo di numeri, ma di persone.

Ho fatto questa intervista nel settembre 2009. Il progetto è partito a luglio 2009 e siamo ormai alla fine di maggio 2010. E’ passato quasi 1 anno. Chissà quanto tempo ci vorrà.

Intervista di Francesca Mezzadri - maggio

Casa dell’Agave
Via San Leonardo 26, Bologna
Associazione Mondo Donna
http://www.mondodonna-onlus.it

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