115523: non è un numero. La sua storia in un documentario

Intervista ai registi autori del documentario su Armano Gasiani, ex deportato del campo di concentramento di Mauthausen

Raccontare fatti storici tragici, come l’olocausto e i campi di concentramento, senza cadere nella retorica, nel già-detto, ma assumendo un punto di vista diverso. Quello di chi ha vissuto davvero quei fatti e che - incredibilmente - non condanna, ma ricorda. Ricorda e basta. E lo narra affinché tutto questo non succeda più. E’ il documentario “Mauthausen 115523, la memoria necessaria” realizzato per il Comune del Castello di Serravalle da Gabriele Veggetti e Antonio Saracino grazie alla partecipazione di Armano Gasiani, ex deportato del campo di concentramento di Mauthausen.

Un modo diverso di narrare - “Ho incontrato Armando Gasiani per la prima volta un anno e mezzo fa” spiega Gabriele che lavora come video maker per Medida Film “Ero stato incaricato di riprenderlo mentre parlava alle scuole e poi montare un video su questi incontri.” Ma alla fine questi incontri sono serviti solo da extra per un progetto più ampio. Infatti Armando l’ha colpito così tanto che ha deciso di fare qualcosa di più interessante e l’ha seguito anche a Mauthausen, il 10 maggio 2009, dove, insieme ad alcune classi, ha partecipato alla cerimonia di commemorazione della liberazione del campo.
Ecco, il documentario è su questo. Sul campo di concentramento e sull’ex deportato che racconta quei luoghi. Interessante ed istruttivo, ma nulla di nuovo, come sembrerebbe al primo impatto.

E invece no. La musica con le ocarine, Armando Gasiani in occhiali da sole che irrompe in scena già dall’inizio, lieve e simpatico come una nuvola primaverile che squarcia una torrida giornata estiva, la sua parlata buffa e le sue battute, il ragazzo con la t-shirt degli Iron Maiden che cammina al suo fianco e gli fa domande curiose, danno al film un tono leggero che contrasta con i fatti narrati.

“Durante la prima proiezione del documentario a Castello di Serravalle siamo stati criticati da alcuni per questo approccio un po’ soft a temi così pesanti” spiega Gabriele “ma il nostro intento era quello di raccontare in un modo diverso le cose accadute”.

La seconda liberazione raccontata da Armando - “Il documentario non rispecchia la retorica del raccontare, ma rispecchia la persona, quello che prova. E quello che Armando sente non è rabbia, ma semplicemente un impulso di raccontare” spiega Antonio, che insieme a Gabriele ha girato il documentario di una trentina di minuti. Un documentario che racconta non solo Mauthausen, ma soprattutto la storia di un numero che numero non è, e che lo fa nel suo stile e con il suo modo di porsi. Privo di rancore, energico, gioioso e soprattutto umano.

Pare che Armando Gasiani, classe 1927, sia stato zitto per 50 anni. Dopo essere stato catturato nel dicembre del 1944 ad Anzola per aver simpatizzato con i partigiani è stato rinchiuso per 4 mesi nel campo di concentramento austriaco. Da quando il 10 maggio del 1945 il campo è stato liberato, Armando è tornato alla sua vita, ma si è sempre rifiutato di parlarne. Troppo il dolore, troppe le cose atroci viste e vissute.

Poi all’improvviso la rivelazione. O “la seconda liberazione”, come la chiama lui nel documentario.
Armando va a vedere, spinto da sua moglie, il film di Roberto Benigni “La vita è bella”. E’ quel film che gli permette di capire che bisogna raccontare. Che farlo è necessario.

Per questo da allora non si è più fermato. E’ andato nelle scuole a parlare con i ragazzi, ha partecipato a molte cerimonie di commemorazione, a convegni, ha collaborato con fondazioni e associazioni per la memoria.
“Armando” spiega Antonio “ritiene che fare tutto questo sia necessario perché ha paura che il razzismo possa portare ancora al ripetersi di fatti così tragici.” E lo dice anche lui stesso nel documntario. “Sono qui per raccontare. Queste sofferenze, allora, non si potevano dire. Ma ora che ho avuto questa possibilità, questa seconda liberazione, lo voglio dire ai giovani per evitare il rischio che questo disastro umano possa tornare.”

Il documentario ce lo racconta come farebbe lui.

115523: una storia - Andiamo avanti. Armando lo dice spesso mentre cammina. E si rivolge a tutti i ragazzi che nel documentario lo seguono come un Virgilio sui generis nell’inferno: dalla piazza del campo di concentramento, alle baracche, fino alle “docce”. E intanto lui racconta. Spiega l’impatto tremendo a Mauthausen, quando arrivò il 12 gennaio 1945 con suo fratello più grande. Aveva solo 17 anni ed era sconvolto dopo il lungo e inumano viaggio in treno. “Tutta questa piazza piena di gente, di schiavi. (…) Siamo arrivati con le SS ai fianchi. Vedere questo spettacolo è stato incredibile. Vedevi gente con i numeri, legati con catene che gridavano aiuto e nessuno li aiutava. (…) Entriamo in un portone e ci tolgono tutti i vestiti. Poi al secondo portone ti depilavano e guardavano se avevi denti d’oro. Al terzo portone ti facevano la foto e cambiavi nome e diventavi numero. Dopo, alle docce. (…) E abbiamo patito un freddo .. mentre aspettavamo che ci dessero la divisa da schiavo con numero.”

115523: il numero che Armando ha avuto durante i 4 mesi di prigionia. E’ ancora scosso mentre ritorna a far visita alla baracca dove dormiva quando non era costretto ai lavori forzati. Con altre 200, 300, 400 persone. In 6 in un letto. “Io ce l’ho fatta grazie a mio fratello che mi aiutava. Ero un ragazzotto, ho compiuto 18 anni qua dentro. Mio fratello era più grande. Mi ha aiutato con la sua esperienza”.

Le parole, a volte un po’ sconnesse di Armando, i suoi occhi chiari limpidi, il suo sguardo diretto, la sua “sfrontatezza” nel raccontare cose atroci, la sua simpatia: non si può rimanergli indifferente. Non è un narratore lucido perché questi fatti li ha vissuti, li ha scontati sulla pelle, ma è preciso nel raccontare episodi e ricordare date. Solo che lo fa nel modo un po’ secco, un po’ brutale delle persone schiette e dirette, e per questo forse colpisce ancora di più.

Perché Armando è una persona come tutti noi, che ha vissuto un’esperienza drammatica unica che l’ha scalfito ma che non l’ha distrutto. Ha mantenuto il suo spirito, la sua allegria e la sua voglia di fare, che si coglie già dall’incipit del video, quando, armato di cellulare, si destreggia tra gli autobus con il suo trolley.
Non fa pena. Non è pazzo. Non è distrutto dal dolore. E’ un uomo che sente la responsabilità di raccontare la sua storia. Una storia incredibile. Lo dice spesso: “Quando diciamo che questa storia è incredibile… E’ incredibile veramente.”

Lo stile di Armando - E invece Armando è una persona con un forte senso della realtà, sensibile, umano, simpatico. Per questo la musica che lo accompagna nel documentario è quella a tratti anche allegra suonata dalle ocarine. Il video mostra anche il suo lato scherzoso, le sue risate, le sue battute anche se non si può dimenticare che quello che ha vissuto è “una cosa terribilissima”. Però Mauthausen non l’ha certo ridotto a un numero, non ha distrutto la sua personalità. Mentre parla ai ragazzi racconta la disumanità del campo: le false docce col veleno, la cattiveria nel concepire le torture… ma lui non ha rancori particolari. Sembra che voglia solo sottolineare fino a che punto “incredibile” la disumanità si sia spinta.

Sopravvive però l’umanità. Non solo nei suoi racconti e nel suo sguardo, ma anche nei muri delle baracche con le scritte, negli sguardi dei ragazzi curiosi che ascoltano il loro Virgilio, e nei disegni stilizzati di Facetti e Belgioso, altri due ex prigionieri, rispettivamente editore e architetto, che scorrono sui titoli di coda. Un’umanità che anche qui, in questo inferno, non si è persa.
Andiamo avanti. Come dice Armando. Perché io non sono capace di andare piano.

Intervista di Francesca Mezzadri - febbraio

Per guardare il documentario:
Consulta la Videoteca dell'Assemblea legislativa Regione Emilia-Romagna

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