Morire di carcere

L'alto tasso dei sucidi nelle carceri italiane

immagine di Persepolis del carcereGheghi Plasnicj si è impiccato a Bologna il 21 ottobre 2010. Aveva 32 anni. 
Era un padre di famiglia? Aveva figli o una moglie? Oppure era un povero giovane disoccupato con una famiglia che lo manteneva? Di certo c’è solo che Gheghi Plasnicj scontava una condanna per tentato omicidio ed era rinchiuso nel carcere della Dozza. Non era la prima volta che provava a suicidarsi e gli agenti “hanno fatto di tutto per salvarlo”.

A questo punto, non dico che verrà tirato un sospiro di sollievo ma quasi: chiunque legga questa notizia proverà forse pietà, ma nel cuor suo penserà che d’altronde se una persona è in carcere un motivo ci sarà e che forse il senso di colpa per un crimine commesso può portare alla disperazione. "Gli agenti d’altronde hanno fatto di tutto per salvarlo”.

Gheghi Plasnicj è solo uno dei 66 suicidi in carcere in Italia nel 2010 (e nel 2011 siamo già a quota 35) mentre si contano 1.134 tentativi di suicidio. Un dato inquietante se si considera che nel 1990 erano “solo” 23 le persone che si sono uccise. Un dato che cresce costantemente ogni anno –nel 2009 si registrarono addirittura 72 suicidi - il numero più alto mai avuto in Italia.

Ma non è il senso di colpa a uccidere. Sono sicuramente le condizioni di vivibilità del carcere e il sovraffollamento che in questi anni hanno raggiunto picchi clamorosi, i fattori scatenanti, anche se non gli unici. Secondo il Dossier “Morire di carcere” che riporta i dati dal 1990 al 2010 del Dipartimento di Amministrazione penitenziaria, rielaborati dal Centro Studi Ristretti Orizzonti, esiste una relazione tra sovraffollamento delle carceri e frequenza dei suicidi. Infatti i 9 istituti penitenziari dove sono avvenuti più suicidi nel 2010 (circa il doppio), sono anche quelli più sovraffollati (22% oltre la media nazionale). E sono quelli di Catania, Siracusa, Sulmona e Reggio Emilia.

Tuttavia non basta considerare solo numeri come quello dei suicidi in carcere o capienza degli istituti, ma per capire meglio il problema bisogna contestualizzare il suicidio e considerare il dato in rapporto alla popolazione. Questo studio è stato condotto dall’Istituto nazionale Francese di Studi demografici nel 2009 in Europa. Non da italiani, dunque, anche se il problema sembra riguardarci visto che l’Italia è risultato essere il paese con il più alto scarto di suicidi tra cittadini carcerati e liberi: questo vuol dire che in carcere da noi i suicidi sono circa 9 volte più frequenti (in Gran Bretagna 5, in Francia 3, in Germania 2). Insomma: ci si uccide molto di più in carcere che altrove.

Certamente, l’affollamento, la mancanza di spazi, di intimità, le scarse condizioni igieniche sono fattori importanti e che possono essere la causa di tutto ciò. Ma se si analizza la situazione a fondo il problema è anche un altro.
Sono soprattutto i giovani a togliersi la vita (nel 2010, 17 tra i 66 suicidi avevano meno di 30 anni; 21 tra i 30 e 40 anni) e lo fanno spesso nei primi 6 mesi di detenzione. Si tratta di persone con imputazioni non gravi, rinchiusi per reati minori, perlopiù stranieri.
E se è vero che è la disperazione –ovvero la totale assenza di speranza – a portare al suicidio, non si spiega perché le vittime sono proprio loro: i giovani con più probabilità di uscire.

Secondo una ricerca condotta nel 2002 da Luigi Manconi (Così si muore in galera. Suicidi e atti di autolesionismo nei luoghi di pena, in “Politica del diritto”, A 2002) non è affatto vero che la tendenza a togliersi la vita sia strettamente correlata alla riduzione della speranza e lo dimostra non solamente la tipologia di vittime, ma anche alcuni episodi analizzati da Manconi negli anni passati. Dal 1990 i suicidi sono aumentati nel corso degli anni e in soli dieci anni il numero è più che triplicato. Nel 2001 è stato l’anno del cosiddetto “Mancato Giubileo” dei detenuti, ovvero una promessa di amnistia/indulto da parte del Governo e della Chiesa, promessa che aveva generato molte attese ma che poi non è mai avvenuta. E proprio in quell’anno il numero dei suicidi ha subito un’impennata (69 suicidi).

E tra le vittime si registrano soprattutto giovani, stranieri, chi una possibilità l’avrebbe ancora potuta avere. Era forse il modo di gridare e “reagire” ad un’aspettativa delusa? Secondo Manconi il suicidio ha rappresentato, in questi casi, la sola voce di chi, nei fatti, non aveva più voce. A fare scattare la molla non è stata l’assenza di un futuro o la prospettiva di assenza di un futuro, ma “l’incapacità di vivere e organizzare il presente”. Paradossalmente un malato terminale ha più forza per affrontare il presente e questo grazie alla rete di relazione e affetti che lo può tenere ancora in vita. Quella stessa forza che manca ai giovani stranieri detenuti, spesso ancora in attesa di giudizio definitivo, che appena giunti in carcere vengono spesso isolati o non riescono a comunicare né con l’esterno e difficilmente all’interno della nuova struttura dove esistono regole e gerarchie sconosciute soprattutto ai più deboli. "Chi si trova privato della possibilità di disporre al presente della propria vita, non può fare altro che decidere della propria morte” scrive Manconi.

A non farcela anche oggi sono soprattutto le persone più fragili, chi già fuori viveva in una condizione di emarginazione sociale. D’altronde, se un tempo venivano rinchiusi in carcere soprattutto i “criminali professionisti” che tenevano in conto questa eventualità, oggigiorno sono soprattutto gli emarginati, i poveri, i piccoli criminali, gli “ultimi”, chi non ha la possibilità di avere sostegno, quelli a finire dietro le sbarre.
E poi il sovraffollamento, le precarie condizioni di vita, la scarsità del personale nelle carceri fanno il resto.

Sarebbe necessario un investimento di strumenti, risorse, personale e competenze. Un sostegno terapeutico per i nuovi arrivati, un serio percorso riabilitativo, la possibilità reale di una rieducazione. Con la circolare del 2008 sulla Prevenzione dei suicidi e tutela della salute dei detenuti e con le attività di riabilitazione, spesso volontarie, portate avanti dalle associazioni, qualche passo in avanti è stato fatto, ma ora che le carceri straripano, mancano soldi, energie e persone.

Ma a noi, cittadini liberi, spesso poco importa.
Certo, ci dispiace che Gheghi Plasnicj si sia ucciso. Ma gli agenti hanno fatto quello che hanno potuto. E poi aveva già tentato di uccidersi in cella. E, comunque, aveva quasi commesso un omicidio.

Tendiamo a voler rimuovere tutto ciò che ha a che fare con la colpa, come se non ci dovesse e potesse riguardare. Per questo le carceri sono spesso al di fuori dai centri cittadini, per questo sui giornali i detenuti che si sono uccisi non hanno nomi ma solo colpe da scontare. Gli unici nomi sono quelli di direttori di carceri che lamentano scarse risorse, di agenti che hanno tentato di salvare i detenuti, di assessori che si dispiacciono.

La nostra società è diventata sorda alle storie scomode di chi ha avuto una vita difficile e si è macchiato di colpe. Ora però che le carceri stanno scoppiando, qualcosa arriverà anche a noi, cittadini liberi, che non vogliamo sapere e non ammettiamo neanche un confronto con chi sta dentro. E allora forse staremo un po’ ad ascoltare, finalmente, queste voci.

Francesca Mezzadri - luglio 2011

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