L'ultimo testimone
Sono trascorsi cento anni da quel 22 ottobre 1913 che vide l’esplosione della miniera di carbone di Dawson, nella contea di Colfax, New Mexico. La maggioranza dei 284 minatori al lavoro quel giorno era italiana; i restanti, greci, messicani, polacchi, austriaci, slavi, boemi, russi, scozzesi, irlandesi. Il disastro, causato da una sacca di gas metano, sconvolse le gallerie della miniera Stag Canyon 2 alle 15 esatte, provocando 261 vittime. L’intera cittadina di Dawson tremò per la deflagrazione. I familiari dei lavoratori si precipitarono immediatamente alla miniera. Le squadre di soccorso lavorarono febbrilmente per due giorni scavando fra i detriti. Dei 140 morti italiani, 38 provenivano dall’Appennino modenese: 17 di Fiumalbo, 15 di Serramazzoni, tre di Pievepelago, due di Riolunato e uno di Fanano.
La Phelps Dodge Mine Company, proprietaria della miniera, non si assunse la responsabilità della tragedia attribuendone la colpa a un minatore rimasto sconosciuto. Per la stampa locale la miniera era la più sicura, moderna e attrezzata degli Stati Uniti. La Phelps Dodge si fece carico solo delle spese dei funerali e del rimpatrio dei familiari, liquidando mille dollari a ogni vedova, 1.500 se aveva figli.
L’ultimo testimone della vicenda, naturalmente indiretto, dal momento che sono passati cento anni, è Walter Santi, che vive a Bloomingdale nell’Illinois ma è nato nel 1923 vicino a Dawson in New Mexico. A 90 anni Walter è ancora in buona forma mentale e fisica, e comunica via mail, telefono e skype. Parla bene l’italiano, rafforzato dall’ascolto quotidiano di un paio di stazioni radio e dalle molte vacanze trascorse in Italia. La sua famiglia proveniva da Rotari, una frazione di Fiumalbo. Tre suoi zii morirono nel disastro della miniera.
Walter vive in Illinois dagli anni Settanta. La sua casa si trova in una zona rurale a quaranta minuti da Highwood, cittadina a nord di Chicago dove esiste una comunità italiana costituita dai discendenti degli emigrati dell’Appennino modenese e bolognese arrivati lì per lavorare nelle miniere di carbone della zona. A Highwood esiste ancora la Società Modenese di Mutuo Soccorso fondata nel 1906. “Highwood – dice Santi - è dove ho appreso la maggior parte del mio italiano, che ora è stato sostituito dallo spagnolo: le vecchie generazioni muoiono e quelle più giovani pensano a cose migliori”.
Ma il luogo natale di Walter Santi è in New Mexico, a una cinquantina di km dalla miniera di Dawson, e si chiamava Swastika, nome indiano che prima della seconda guerra mondiale, per evitare analogie col nazismo, fu mutato in Springer. “Pochi sanno – spiega - che la svastica era un simbolo benaugurante usato dagli indiani Navajo, che gli italiani emigrati nella zona conoscevano prima che Hitler se ne appropriasse. Anche Swastika era un villaggio minerario, di circa 500 abitanti, molti dei quali italiani. Questo è il motivo per cui sono nato lì, lontano dall’Emilia dei miei genitori, i quali celebrarono il loro ricevimento di nozze proprio all’Hotel Swastika di Raton, con il famigerato marchio – poi rimosso – sopra l’insegna”.
Dawson, a oltre 2.000 km da Highwod, era un altro luogo di minatori. “Ha cessato di vivere nel 1950, quando il prezzo del trasporto del carbone era diventato superiore al valore del carbone stesso”, dice Santi. “Le miniere furono chiuse lasciandosi alle spalle duecento anni di estrazione del carbone, e la città fu rasa al suolo. Era un posto migliore per vivere delle colline modenesi: Dawson aveva dottori, un ospedale, una piscina, l’ufficio postale, il teatro, due chiese, negozi moderni ed eccellenti scuole per i bambini. Sfortunatamente, fu un disastro per molte famiglie. Oggi è una ghost town che sta nelle pagine della storia, protetta dal governo degli Stati Uniti come luogo storico e come un santuario per le generazioni future”.
“Mio padre veniva da Rotari, Fiumalbo, e l’albergo Stella, appartenente alla famiglia Santi, era gestito dallo zio. Mia madre era di Bologna e più tardi ha vissuto a Pompei, dove mio nonno aveva un commercio di scarpe. Il fatto strano è che la tragedia di Dawson li ha uniti. Dopo l’esplosione della miniera mio padre andò nelle colline modenesi a consolare la famiglia, ma si trovò in un punto sbagliato della storia, perché era scoppiata la prima guerra mondiale e gli misero in mano un fucile per combattere gli austriaci. Trascorse così un periodo orribile a Mauthausen, finché una notte riuscì a sgattaiolare via e a prendere la via dell’Italia per poi tornare finalmente in America. Incontrò mia madre alla fine della guerra, mentre aspettava di essere rimpatriato in America”.
“Ho visitato diverse volte il cimitero di Dawson, con quelle 386 croci bianche d’acciaio che sopravvivranno in eterno. Ma è strano vedere nel bel mezzo di una montagna desolata, queste tombe con nomi delle colline modenesi e dediche scritte in italiano. Ogni anno c’è un raduno dei discendenti accanto a questo giardino di tombe, le cui porte sono sempre aperte ai visitatori”.
“Una delle cose peggiori della catastrofe della miniera fu che le vedove dei minatori dovettero riportare i loro bambini in Italia. E quando questi più tardi tornarono negli Stati Uniti da adulti, non sapevano più se erano americani o italiani”, conclude l’ultimo figlio di Dawson rimasto a testimoniare un lontano dramma del lavoro e dello sfruttamento. A novant’anni, ha prodotto questo video per non dimenticare.