Sintesi storica dell’emigrazione italiana ed emiliano - romagnola

Dall’Unità d’Italia all’inizio della Grande Guerra

1861-1914. L’Italia unita nell’epoca delle grandi migrazioni.

1861-1914In seno all’Europa, nella seconda metà del XIX secolo, prende corpo un movimento migratorio senza precedenti. Vi concorrono elementi antichi e inediti: la fuga da una carestia che miete milioni di vittime nell’Irlanda brutalmente assoggettata al Regno Unito a fianco dell’introduzione del vapore che consente l’immissione massiccia delle produzioni americane di grano nei mercati europei ad un prezzo inferiore al locale costo di produzione. Il vapore assiste pure la politica delle cannoniere. Sono gli anni nei quali le potenze europee rinegoziano - al Congresso di Berlino, nel 1878 - le proprie linee di confine coloniali. Prende consistenza, in quella congiuntura, un’economia-mondo come mai si era data; destinata poi a confliggere nel bagno di sangue della prima guerra mondiale. Questa nuova geografia mondiale sarebbe stata destinata a sconvolgere non soltanto i continenti colonizzati ma il medesimo equilibrio tra le geografie locali della “vecchia” Europa. A cominciare dalla mobilità tradizionale delle genti. In modo particolare, scandito sul calendario delle stagioni, era rilevante lo scambio mercantile e demografico tra le regioni montane, le pianure, le coste mediterranee. Ad emigrare erano soprattutto gli uomini. Trattandosi di un’economia preindustriale, ci si spostava con il “capitale”: fossero le pecore, i formaggi, le acciughe, gli orsi ammaestrati, le statuine di gesso, una fisarmonica, piccoli manufatti per la casa, i pochi attrezzi per esercitare il mestiere di seggiolaio, ombrellaio, arrotino, ecc. Fatto salvo il manifestarsi di determinate contingenze straordinarie - una guerra, una pestilenza, una carestia - le frontiere tra gli Stati, tutto sommato, potevano essere attraversate senza troppi problemi. E ciò tanto più in una geografia nazionale caratterizzata dalla compresenza di molteplici domini statuali, ridotti per dimensioni e solo parzialmente integrati dal punto di vista linguistico. Le cose cambiano evidentemente nel momento in cui prende corpo il progetto di unificazione statuale dell’Italia. Ai nuovi confini corrisponde il punto di vista di una nazione-stato, la cui esistenza formale si struttura innanzitutto attorno all’attribuzione della cittadinanza formale. V’è da stabilire chi sia “italiano” e chi “straniero”, perché vi corrispondono diritti e doveri non equiparabili. Il controllo sulla residenza rientra propriamente nella sfera dell’ordine pubblico: sapere se ci si muova in forma “temporanea” o “permanente”, e se con le carte del nuovo stato in regola o meno, diventa un gesto che esce dall’economia morale propria delle comunità locali e si riverbera nel campo dell’economia politica. Tra il 1876 (quando le statistiche governative assumono una metodologia compiuta) e l’ultimo anno di pace, il 1914, l’Italia registra quasi 16 milioni di partenze. Dall’Emilia-Romagna, regione considerata a torto di minore impatto migratorio, se ne vanno oltre 700 mila persone.

 

Fra le due Guerre

1915-1945. Emigrare tra le nazioni in guerra

1915-1945La Grande Guerra si annuncia all’Italia con un fenomeno inedito e tuttora poco studiato: l’affollarsi di profughi alle frontiere “nazionali”. Erano gli emigranti ricacciati dagli eventi bellici. L’evento bellico funge da segnavia nella tenuta e selezione delle filiere migratorie delineatesi in precedenza. Emigrare in Germania non è più, evidentemente, la medesima cosa di prima. Nel contempo gli Stati Uniti alzano barriere etniche e ideologiche (per allontanare il “contagio” della rivoluzione bolscevica) estremamente problematiche da varcare, se non per ricongiungimento familiare. Perdono in attrattività pure i grandi paesi latinoamericani che nell’ultimo ventennio del XIX secolo avevano agito da calamita nei confronti di masse di contadini piemontesi, emiliani, veneti. Si emigra a più corto raggio, con una preferenza netta per la Francia, il paese tradizionalmente più ricettivo nel contesto europeo. La novità è che, ovunque ci si diriga, il singolo atto migratorio viene sottoposto ad un piùstretto controllo di polizia. I governi, quando non si preoccupano di frenare i flussi, tentano di indirizzarli sulla base delle proprie strategie politiche. Un esempio calzante lo fornisce la Francia, la quale favorisce l’insediamento di agricoltori e artigiani nel proprio sud-ovest spopolato (causa il numero spropositato di contadini morti in guerra) o di minatori nell’Alsazia-Lorena (riconquistata alla Germania). Tuttavia, ragioni diplomatiche contingenti tendono a contrastare il concentrarsi degli emigranti italiani nell’area parigina, dove si dirigono di preferenza i dirigenti antifascisti esiliati da Mussolini. Qualcosa del genere accade con il Belgio: da un lato vengono avviate trattative tra i governi per acquisire manodopera da avviare nelle miniere del Borinage, dall’altra viene apertamente contrasta ogni autonoma iniziativa politica in seno all’emigrazione italiana. Il fascismo non perde tempo nell’affermare il nuovo paradigma “nazionale”. Nel 1927 la Direzione generale degli Italiani all’Estero prende il posto del Commissariato generale per l’Emigrazione; ciò con il proposito di sostituire la categoria di “emigrante” con quella di “italiani all’estero” (da considerare “lavoratori” e non “espatriati”). L’affermazione della “italianità nel mondo” diviene la parola d’ordine cui sono chiamati a corrispondere, pena il “tradimento”, i medesimi emigrati. D’altronde l’Italia, senza le libertà civili e in mancanza di ogni seria riforma agraria, non aveva di che sfamare i propri figli. La compensazione avverrà inviando i maschi nelle imprese belliche e coloniali, quindi organizzando dall’alto robusti flussi migratori (anche se non venivano chiamati in questo modo) all’estero verso la Germania nazista e in Italia verso la bonifica dell’Agro Pontino. Nel periodo considerato gli emigrati all’estero furono 4 milioni e mezzo, 190 mila dei quali in uscita dall’Emilia-Romagna.

 

Dalla fine della seconda Guerra mondiale ad oggi

1946-2010. L’Italia delle migrazioni multiple

1946-giorninostriTra il 1946 e il 1986 l’Italia registra oltre 9 milioni di emigranti, mentre una cifra corrispondente si muove dal sud al nord del Paese. Quelli che vanno dal 1947 al 1951 sono chiamati gli anni della “seconda ondata” migratoria, nei quali si ritaglia un posto di tutto rispetto l’Emilia-Romagna, con una forte proiezione verso i paesi con i quali vengono stretti specifici accordi internazionali: il Belgio delle miniere di carbone e delle cave di pietra sale al primo posto tra i paesi di destinazione, poi l’Argentina del generale Peron, che promette più di quanto saprà mantenere; e la Francia. L’altra grande destinazione migratoria, significativa tra l’altro per l’elevato tasso femminile, sarà la Svizzera. Tra il ’46 e il ’60 - gli anni che precedono il “boom” economico - le statistiche ufficiali parlano di 222 mila partenze per l’estero dalla Regione. Al termine di questo periodo, complice la profonda trasformazione in senso industriale della struttura economica cui si agognava da un secolo, l’Emilia-Romagna rovescia rapidamente la bilancia demografica dei flussi migratori. Già negli anni ’70 cominceranno ad affluire i primi contingenti di lavoratori stranieri provenienti dall’estero, quando a livello nazionale il simbolico “pareggio” tra emigrati ed immigrati data al 1986. L’attitudine precoce dell’Emilia-Romagna nel proporsi come regione attrattiva è il dato che meglio ne connota l’attuale profilo globale. I processi di internazionalizzazione investono, insieme al mercato del lavoro e alla sfera delle imprese, le condizioni sociali della riproduzione, quindi più complessivamente l’ambiente locale. L’interdipendenza tra i territori trova un riflesso immediato nella complicazione dei flussi migratori. Subentra anche la necessità di un adeguamento nei codici interpretativi: lo schema binario basato sulla contabilità semplificata tra entrate ed uscite alle frontiere serve poco a fronte di progetti migratori caratterizzati da movimenti multipli che disegnano orbite ellittiche. Per leggere i quali si usano oggi categorie quali pluriappartenenza e transnazionalità. L’esperienza migrante, in altri termini, genera fili sempre più lunghi, che attraversano frontiere e territori, generazioni e culture. Il riflesso più evidente di questa inattesa insorgenza culturale è dato dall’impennarsi delle iscrizioni nei registri AIRE (l’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero), un fenomeno che dura da un buon decennio e non si lascia assoggettare a letture monotematiche. Così per il moltiplicarsi dei patti di amicizia promossi dalle associazioni fra migranti: non per ritrovarsi tra simili, ma per riconoscersi fra diversi. Oggi i cappelletti preparati nella Pampa, in Vallonia o nel Limburgo offrono la straordinaria opportunità di rigenerare simbolicamente una conoscenza locale, rendendoci partecipi della medesima cerchia affettiva, ovunque si abiti.