Editoriale n.4 - Cultura e patto tra generazioni

 

 

Promuovere il dialogo con e fra diversi e costruire memoria collettiva per promuovere la cultura dei diritti 

Il commento di Vincenza Pellegrino, sociologa dell'Università di Parma 

 

Come ben dimostrano le attività delle quattro associazioni protagoniste di questa newsletter, la memoria è un “dispositivo sociale” e non un fatto individuale.

Halbwatchs (1997) [1] con la sua nozione di «quadri sociali della memoria» sostiene appunto che la memoria non è legata univocamente ai fatti ma è, di fatto, un’opera intellettuale, una ricostruzione di natura interattiva: secondo questa impostazione, ciascuno di noi collocherebbe la rielaborazione del proprio vissuto all’interno di “quadri di senso” diffusi, che cambiano nei contesti sociali, che sono appunto collettivamente costruiti e differenti nei gruppi. In questo senso, i modi di trasmettere ad altri la propria esperienza, di “fare memoria” appunto, sarebbero modi per “costruire l’appartenenza” dei singoli ai loro contesti.

Ancora, Jedlowski sottolinea come (2000)[2] il “senso-in-comune” che si afferma con la narrazione di sé agli altri è una costruzione strana poichè tale narrazione corrisponde alla sospensione del dubbio (dubbio che le cose possano stare altrimenti da come è ovvio pensare che stiano). In tal senso, i nostri testimoni narrano le brutture della guerra o le durezze del viaggio migratorio per inserirle in una rassicurante dimensione del “noi”, per renderle domestiche, superarle trovando loro una nuova collocazione anche nel vissuto degli altri.

Per il bambino ascoltare la guerra dai nonni significa concepire la loro giovinezza, proiettarsi nelle stagioni di vita, nell’idea di una trasformazione continua che ci accomuna e così via, e così rendergli più sensata e più vivibile quella debolezza umana che quando pensiamo “solo nostra” ci pare intollerabile.

Infine, le narrazioni di cui si occupano queste newsletter, costruiscono l’appartenenza di anziani, bambini, migranti ad un “noi collettivo”. L’appartenenza che nasce da queste narrazioni, tuttavia, non è soltanto “conoscenza reciproca”, quanto piuttosto - questa la cosa più importante - formazione di una coscienza politica collettiva, vale a dire della capacità di restituire ai fatti una forma di giudizio comune e un valore (perché accadde quel che accadde, chi è l’eroe, cosa è un eroe, ad esempio). Ascoltare le narrazioni sulla guerra o sul viaggio migratorio significa pensare a coloro che li stanno vivendo ora, all’eroismo di altre vittime oggi.

E’ da questo esercizio collettivo di “nomina” del senso delle cose più dure, dei conflitti e delle privazioni, delle negazioni del diritto ecc., nasce il sentimento collettivo di rigetto per le ingiustizie – che non è mai scontato o automatico. E’ questo esercizio che crea i presupposti emotivi e culturali per una sentita e diffusa tutela dei diritti, che altrimenti diviene solo elitaria, o formale e burocratica.

Infine potremmo dire che le attività di narrazione condivisa tra concittadini vissuti in epoche diverse o nati in luoghi diversi a cui queste newsletter ci introducono sono davvero un esercizio di cittadinanza attiva poiché costruiscono quella memoria comune attraverso cui orientare una comunità nelle scelte sul “vivere domani”.


[1] Halbwatchs M., 1997, I quadri sociali della memoria, Ipermedium, Napoli (titolo originale: On Collective Memory, 1992).

[2] Jedlowski P., 2000, Storie comuni: la narrazione nella vita quotidiana, Bruno Mondadori, Milano.

 

 

 

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