Perché il Premio Nobel per la Pace alle donne africane?

Un esempio di donna coraggiosa che lotta contro l'emigrazione clandestina in Senegal

Yayi Bayam DioufYayi Bayam Diouf ci accoglie nel suo studio a Thiaroye-sur-mer, alla periferia di Dakar. Una sala interamente occupata da un grande tavolo centrale. Le finestre aperte ai lati si affacciano sulla strada: le voci dei bambini ci sovrastano. Ai muri alcune foto la ritraggono con alcune donne europee politiche: Ségolène Royal e Rosa Aguilar Rivero. Il volto nelle foto appare più severo, quasi corrucciato. In realtà Yayi Bayam Diouf è una donna energica, alta, molto dignitosa, con un sorriso non scontato che quando però le appare le rischiara la pelle scura. E’ concentrata quando parla e cosciente del ruolo che riveste.

Un figlio in Europa - D’altronde è la prima donna africana presidentessa di un’associazione. L’associazione si chiama Coflec - Collettivo delle donne per la lotta contro l’emigrazione clandestina in Senegal.
“In Africa è motivo di grande orgoglio per le madri avere un figlio che se ne va in Europa a cercare lavoro” spiega Yayi Bayam Diouf “e perciò non si tiene conto dei rischi che si corrono a partire clandestinamente per le coste europee. Soprattutto qui, a Thiaroye-sur-mer, un piccolo villaggio di pescatori, le donne credono che l’unica salvezza per la famiglia sia avere un figlio in Europa”.

Thiaroye-sur-mer, come tanti villaggi africani sul mare, si regge sulla pesca. Sono tutti pescatori: si dice che “Dome tope baye, rake tope make”: il figlio succede al padre, il fratello piccolo a quello grande. Prima questo sistema funzionava, ma a partire dagli anni ‘80, la pesca non basta più. Per questo un giovane che emigra verso le vicini coste delle Canarie rappresenta, agli occhi della famiglie, un’alternativa alla povertà. Ed è normale che si creda, in una società come quella di Thiaroye, dove il 25% della popolazione è composto da giovani, il 20% da uomini anziani e il 60% da donne spesso analfabete che devono occuparsi dell’intera famiglia.

Qualche piroga in effetti dal 2005 è riuscita ad arrivare in Spagna. Ma da allora si registrano solo lutti e poche speranze: 156 giovani scomparsi al largo delle coste, 210 rinchiusi nei campi dei rifugiati in Spagna, 88 orfani dell’emigrazione clandestina.

E Yayi Bayam Diouf lo sa bene purtroppo: anche suo figlio è partito per l’Europa nel 2006 con un’imbarcazione di fortuna e non è mai più tornato. Dopo aver pianto la sua morte e aver partecipato a tanti altri funerali, Yayi Bayam Diouf ha finalmente deciso di aprire gli occhi alle altre donne, madri e mogli, colte dal medesimo dramma. Ha così fondato Coflec, un’associazione che si rivolge proprio a loro, perché appunto sono il “motore africano” nel bene e nel male, affinché spronino i loro figli a non imbarcarsi clandestinamente da qui. La campagna di sensibilizzazione di Coflec è anche supportata da fondazioni e ONG spagnole che si occupano di immigrazione. La loro attività consiste in organizzazione di convegni, proiezioni pubbliche, partecipazioni a forum sociali, ma soprattutto visite a domicilio nelle famiglie.

“Quello che voglio dire alle madri è: fate partire i vostri figli se vogliono, ma in modo legale e sicuro. E se non ci si riesce, allora c’è modo di guadagnare dignitosamente anche qui”. E l’alternativa viene offerta dalla stessa associazione.

L’alternativa di Coflec - In Senegal il 90% della popolazione è musulmana, e vige la poligamia. Ogni uomo ha più di una moglie e quindi alla fine sono le donne nella famiglia ad occuparsi dei figli e segnare in qualche modo il loro destino. Coflec non solo si rivolge alle madri e indirettamente ai figli - ma anche alle donne, in quanto tali. E’ forse la prima associazione che tiene conto del grande potere che esse hanno nelle loro mani – non solo per le decisioni che prendono all’interno della famiglia, ma anche per le azioni che possono svolgere. L’associazione propone un’alternativa al viaggio pericoloso del figlio verso l’Europa: il lavoro in Senegal e più in specifico lì, a Thiaroye. Lavoro per i figli, ma anche per le madri.
Infatti Coflec, oltre all’attività di sensibilizzazione, sostiene attività socio-economiche all’interno di una cooperativa.

“Io lo dico a tutte le donne di non sposarsi così presto! E di non avere così tanti figli, ma di lavorare!” Yayi Bayam Diouf ne è convinta. L’emancipazione delle donne è fondamentale per garantire un futuro al paese.

L’associazione gestisce corsi di alfabetizzazione per combattere l’analfabetismo che colpisce la maggior parte delle donne nel villaggio ed è il primo passo per rendersi “autonome”, corsi di formazione per specializzarsi in una professione. In seguito propone un lavoro nella cooperativa Coflec, e sistemi di risparmio legati al microcredito.

Il “motore” dell’Africa - Sul tavolo ci sono alcune borse piene di prodotti dal marchio Coflec. Marmellate, sciroppi, burro di arachidi, saponi, tinture, fatti dalle donne della cooperativa che vengono portati e venduti ai commercianti di Dakar e dei paesi vicini. Alcune di loro, a volte, grazie al sistema di microcredito, riescono anche a lanciare piccole attività imprenditoriali.

Yayi Bayam Diouf ci fa vedere i registri e ne è molto orgogliosa: ci sono 375 donne che lavorano nella cooperativa. Si possono sfogliare le schede di ognuna con le loro attività. C’è chi si occupa della vendita, chi fa parte dell’unità di tintura, chi della distribuzione e trasformazione dei prodotti, chi fabbrica bambole artigianali, chi lavora nel reparto informatico, chi nella fabbricazione del sapone… Ognuna di loro versa ogni mese parte del suo guadagno alla cooperativa.

Ogni 4 mesi poi, la presidente, le responsabili e le coordinatrici delle varie attività si riuniscono e si confrontano per decidere quali nuove attività finanziare. Ad esempio, una donna che si è occupata di vendite ormai da qualche anno, desidera aprire una boutique: la cooperativa valuta se è il caso di finanziarla.
La cosa certa, ci tiene a ribadire Yayi Bayam Diouf, è che tutte lavorano per il benessere collettivo.

E chi non riesce a pagare ogni mese? “Su quella lavagna viene segnato il suo nome e la sua foto che non viene tolta finché non paga”. La fierezza che si legge sul volto della presidente mentre ce lo dice, fa capire quanto valore abbia qui la dignità. Non dev’essere semplice farsi rispettare in un paese musulmano dove esiste la poligamia.
“I mariti delle nostre donne non sono sempre d’accordo che le mogli inizino a lavorare. Ma poi quando vedono che anche loro guadagnano e portano a casa qualcosa, non le ostacolano più. Al massimo si lamentano e basta”.

L’associazione è anche un mezzo per emanciparsi dai mariti violenti, che le picchiano e le sfruttano. “Io non mi stancherò mai di dire” dice Yayi Bayam Diouf “che il cambiamento in un paese come questo può partire solo dalle donne. Sono loro che sostengono l’economia africana. Non serve mandare i nostri giovani all’estero a lavorare” dice con una mano sul petto. Il Premio Nobel della Pace deve andare alle donne africane anche per questo. E gli uomini come trattano la presidente?
“Gli uomini mi fanno la guerra, ma…" Yayi Bayam Diouf scuote la testa e adesso sorride. Si può star certi che non smetterà.

Francesca Mezzadri - marzo 2011

Per informazioni su Coflec:
http://www.coflec.org/

Per firmare a favore del Premio Nobel per la pace alle donne africane:
http://www.noppaw.org

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