Legislatura 17ª - Dossier n. 114

Riequilibrio della rappresentanza di genere: l'ingresso nell'ordinamento italiano

Disposizioni volte alla promozione dell’accesso delle donne alle cariche elettive apparvero, attraverso una disciplina della formazione delle liste dei candidati, nell’ordinamento nel 1993.

Esse furono introdotte con la riforma del sistema di elezione del sindaco e del presidente della provincia (legge 25 marzo 1993, n. 81, articolo 5, comma 2, ultimo periodo, e articolo 7, comma 1, ultimo periodo). Si previde allora che nessuno dei due sessi potesse essere rappresentato nelle liste dei candidati in misura superiore ai due terzi.

Seguirono la medesima ispirazione anche leggi di alcune Regioni ad autonomia speciale (ossia di Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Valle d'Aosta) circa le elezioni comunali.

Una disposizione analoga, relativa all’elezione dei Consigli regionali a statuto ordinario, fu indi posta nella legge 23 febbraio 1995, n. 43 (articolo 1, comma 6).

Norme ispirate alla stessa finalità furono previste anche per le elezioni politiche (per la Camera dei deputati, dalla legge 4 agosto 1993, n. 277: articolo 1, comma 1, lettera e); per il Senato, dalla legge 4 agosto 1993, n. 276: articolo 1, comma 1).

Quella riforma elettorale del 1993 dismise il sistema proporzionale, a favore di un sistema misto, in cui il 75 per cento dei seggi fosse attribuito in collegi uninominali, il restante 25 per cento su base proporzionale (cfr. il dossier del Servizio Studi n. 112, Sistema elettorale per l'elezione del Parlamento: 1993-2014).

Ebbene, furono introdotte disposizioni di genere sulla parte proporzionale del sistema di elezione della Camera dei deputati. Si previde che le liste presentate ai fini dell’attribuzione dei seggi in ragione proporzionale recanti più di un candidato, dovessero essere formate da uomini e donne in ordine alternato.

E successivamente, attraverso una modifica del regolamento di attuazione della legge elettorale, fu introdotta una norma di chiusura volta a rendere cogente l’alternanza. All'ufficio elettorale centrale circoscrizionale fu affidato il compito di verificare che le liste recanti più di un nome fossero formate da candidati di entrambi i sessi elencati in ordine alternato e, in caso contrario, in un primo momento, di invitare i delegati di lista a ripristinare l’alternanza e quindi in caso di inottemperanza, di procedere d’ufficio alla modifica delle liste.

Per il Senato non fu introdotta una disposizione analoga, poiché il suo sistema elettorale veniva a prevedere solo candidature uninominali (con l’assegnazione del 25 per cento dei seggi in ragione proporzionale, effettuata nell’ambito della circoscrizione regionale tra gruppi di candidati nei collegi uninominali). Per il Senato vi era solamente la scheda per l’uninominale, e i seggi proporzionali erano assegnati ai candidati non eletti all’uninominale, che avessero ottenuto più voti.

Tuttavia, anche la legge elettorale per il Senato conteneva una norma volta a promuovere la presenza delle donne. Era sancito il principio che il sistema di elezione debba favorire “l’equilibrio della rappresentanza tra donne e uomini” (articolo 1, là dove riscrivente l'articolo 2 della legge n. 29 del 1948).

Tale disposizione è tuttora vigente.

L'insieme di previsioni così predisposte si imbatté nel giudizio della Corte costituzionale, la quale ne dichiarò - con la sentenza n. 422 del 1995 - l'illegittimità costituzionale (ad eccezione della disposizione della legge elettorale del Senato, da ultimo richiamata, per il suo carattere, secondo la Corte, essenzialmente programmatico).

La Corte si pronunziò in tal modo sulle citate leggi per le elezioni politiche, regionali ed amministrative, là dove stabilivano una riserva di quote per l'uno e per l'altro sesso nelle liste dei candidati.

Nella motivazione della sentenza n. 422 del 1995, la Corte costituzionale ritenne che l'articolo 3, primo comma, e soprattutto l'articolo 51, primo comma, "garantiscono l'assoluta eguaglianza fra i due sessi nella possibilità di accedere alle cariche pubbliche elettive, nel senso che l'appartenenza all'uno o all'altro sesso non può mai essere assunta come requisito di eleggibilità, ne consegue che altrettanto deve affermarsi per quanto riguarda la 'candidabilità'. Infatti, la possibilità di essere presentato candidato da coloro ai quali (siano essi organi di partito, o gruppi di elettori) le diverse leggi elettorali, amministrative, regionali o politiche attribuiscono la facoltà di presentare liste di candidati o candidature singole, a seconda dei diversi sistemi elettorali in vigore, non è che la condizione pregiudiziale e necessaria per poter essere eletto, per beneficiare quindi in concreto del diritto di elettorato passivo sancito dal richiamato primo comma dell'art. 51. Viene pertanto a porsi in contrasto con gli invocati parametri costituzionali la norma di legge che impone nella presentazione delle candidature alle cariche pubbliche elettive qualsiasi forma di quote in ragione del sesso dei candidati".

Proseguiva la Corte argomentando che "in tema di diritto all'elettorato passivo, la regola inderogabile stabilita dallo stesso Costituente, con il primo comma dell'art. 51, è quella dell'assoluta parità, sicché ogni differenziazione in ragione del sesso non può che risultare oggettivamente discriminatoria, diminuendo per taluni cittadini il contenuto concreto di un diritto fondamentale in favore di altri, appartenenti ad un gruppo che si ritiene svantaggiato".

"È ancora il caso di aggiungere, come ha già avvertito parte della dottrina nell'ampio dibattito sinora sviluppatosi in tema di 'azioni positive', che misure quali quella in esame non appaiono affatto coerenti con le finalità indicate dal secondo comma dell'art. 3 della Costituzione, dato che esse non si propongono di 'rimuovere' gli ostacoli che impediscono alle donne di raggiungere determinati risultati, bensì di attribuire loro direttamente quei risultati medesimi: la ravvisata disparità di condizioni, in breve, non viene rimossa, ma costituisce solo il motivo che legittima una tutela preferenziale in base al sesso. Ma proprio questo, come si è posto in evidenza, è il tipo di risultato espressamente escluso dal già ricordato art. 51 della Costituzione, finendo per creare discriminazioni attuali come rimedio a discriminazioni passate".