Una scuola per Tifariti, la “città” liberata

15.03.2017

Una scuola per Tifariti, la “città” liberata

TIFARITI- Due cuoche, un autista, un guardiano, un pulmino e un pasto sicuro.  Questo il progetto di rete a Tifariti,  una delle sette “città” dei territori liberati del Sahara occidentale, nel lungo e stretto lembo di terra a est del muro marocchino. Un muro di 2.700 chilometri che separa la parte costiera, più ricca attualmente occupata dai marocchini, e la parte interna più torrida e calda del deserto, dove però i Saharawi sono tornati a vivere dopo la guerra. 

E’ forse questa la tappa più emozionante del viaggio della delegazione che esce dai campi profughi algerini e dopo una traversata di sei ore in Jeep, tra sabbia, sassi e dune, giunge finalmente a Tifariti. 

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Qui il popolo del deserto, così come nelle altre sei città liberate, sta tentando di tornare a vivere anche se la convivenza con un muro minato e con l'arido deserto attorno non è semplice.  Tra i sassi e la polvere delle aspre colline si scorgono un aereo distrutto, un carro armato abbandonato, un fortino. E’ quello che resta dopo un quindi anni di guerra, terminata nel 1991 con l’accordo di pace tra Marocco e Fronte Polisario che prevedeva un referendum per lasciare ai Saharawi la possibilità di scegliere tra indipendenza e annessione al Marocco.

Un referendum che non c’è mai stato. “La guerra però c’è stata, e i Saharawi non vogliono che venga nascosta o dimenticata, per questo hanno lasciato tutto qua, sotto la luce del sole”, spiega Claudio Cantù, responsabile del progetto Rete Tifariti. Il popolo del deserto dopo la guerra aveva anche iniziato a ricostruire: la scuola, i nuovi centri amministrativi, l’ospedale. Si respira un’aria diversa qui a Tifariti, lontano dai campi profughi. Un’aria di speranza, di libertà. Il progetto Rete Tifariti è partito nel 2013 dalle richieste del Fronte Polisario, il movimento per l’indipendenza Saharawi. Qui vive meno gente soprattutto pastori nomadi e le abitazioni sono spesso distanti tra di loro. Il primo obiettivo era quello di far tornare i bambini a scuola. Ne esisteva già una che garantiva una mensa, per un pasto sicuro, e un pulmino che accompagnava i bimbi, facendo tappe nelle distanti aree abitate. 

bimbaLa Rete, composta da Ong come Help for Children di Parma, Cisp Emilia-Romagna, Nexus Cgil, associazioni come le emiliano-romagnole El Ouali di Bologna, Kabara Lagdaf di Modena, Jaima Saharawi di Reggio Emilia ed enti (il comune di Nonantola, Ravenna e Forlì) grazie al contributo della Regione Emilia-Romagna ha riaperto la scuola con insegnanti, cuoche, guardiano e autista. Barbara Lori e Yuri Torri, dell’Intergruppo di amicizia con il popolo Saharawi, durante la missione hanno viaggiato a bordo del pulmino che ogni mattina con un colpo di clacson chiama a raccolta i bimbi “dei quartieri”, anche se non ce n’è bisogno perché sono già belli e pronti alle loro fermate con cartelle colorate o semplici buste di plastica.

gruppoSpiega Claudio Cantù: “Si tratta di un progetto umanitario che però ha un grande significato politico perché è il primo che è stato fatto nei territori liberati. Qui non arrivano gli aiuti delle grandi organizzazioni destinate invece ai profughi proprio perché questo territorio è un po’ come se non esistesse”. La Regione Emilia-Romagna invece dà un segno, quello di riconoscere la sua identità, oltre permettere l’avvio della ricostruzione. “Durante la missione è stato anche stretto un patto di amicizia tra Tifariti e Castelfranco Emilia, uno dei Comuni che ospita i bambini Saharawi d’estate, rappresentato da Giordano Sternieri della Consulta Volontariato. Il primo patto con un territorio liberato.
Il viaggio della delegazione è servito per monitorare la situazione. Claudio Cantù fa il punto: “L’anno scolastico è partito, è stato ricostruito il tetto della cucina della mensa, è stato riattivato uno dei tre pozzi principali. Il prossimo obiettivo è ricostruire l’altro pozzo per dare acqua agli orti della scuola. Anche l’Unicef ha riconosciuto il nostro impegno e i primi risultati”. In cammino verso l’indipendenza.

(Corrispondenza Francesca Mezzadri) 

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