"Il confuso dibattito sul reato di immigrazione clandestina"

15.10.2013

Il testo integrale dell'intervento di Desi Bruno, Garante regionale delle persone private della libertà personale dell'Emilia-Romagna

 

"Il dibattito politico di questi giorni attorno al reato di immigrazione clandestina agita scenari estremamente confusi. In proposito, credo sia opportuno fare un po’ di chiarezza. Il reato di “ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato” è oggi disciplinato dall’art. 10 bis del T.U. immigrazione (d.lgs. n°286/1998) come fattispecie contravvenzionale a cui consegue la pena dell’ammenda che va da un minimo edittale di 5.000 euro (che è poi la cifra mediamente comminata) ad un massimo di 10.000 euro. Peraltro, in caso di inadempienza di una pena pecuniaria, essa si può convertire esclusivamente nella pena sostitutiva della libertà controllata o del lavoro sostitutivo. Detto altrimenti: per il reato di immigrazione clandestina non si può finire in carcere. Eppure, da questo punto di vista, in questi giorni stiamo sentendo tutto e il contrario di tutto.

 

Ma non è tutto. C’è un ulteriore elemento di valutazione che ritengo importante: nei fatti, il pagamento delle ammende comminate rappresenta più l’eccezione che la regola. L’esistenza del reato di immigrazione clandestina, pertanto, di fatto determina un intasamento degli uffici giudiziari competenti in materia – quelli del giudice di pace – perché, in virtù del disposto di cui all’art. 112 Cost., nel nostro Paese l’azione penale è obbligatoria: tutto questo, “semplicemente” per arrivare agli esiti sopra descritti. D’altra parte, in questa materia il diritto penale italiano non può fare quello che vuole. Il diritto comunitario (in particolare nella cd. Direttiva rimpatri 16.12.2008 n° 2008/115/CE) non solo non contempla conseguenze penali per il mancato rimpatrio, ma disciplina il trattenimento presso i centri di permanenza temporanei come extrema ratio, sottoponendoli a condizioni restrittive e a precisi termini di durata massima.

 

In questa situazione, non volendo rinunciare all’operazione di criminalizzare determinate condotte, il nostro legislatore non può che minacciare l’unica pena che può infliggere: ovvero una pena pecuniaria destinata a rimanere inadempiuta. Una considerazione, questo punto, mi sembra si imponga: la previsione del reato di immigrazione clandestina si configura come una norma-bandiera espressiva di un diritto penale tipicamente simbolico.

 

Accanto a questa funzione evidentemente simbolica, però, l’art. 10 bis del T.U. immigrazione presenta ulteriori risvolti di interesse. Per intenderlo dobbiamo leggerne il comma 4 congiuntamente all’art. 13 comma 3 della stessa normativa. L’espulsione amministrativa dello straniero irregolare sottoposto a procedimento penale è normalmente preceduta da un nulla osta che il Questore deve richiedere all’autorità giudiziaria competente all’accertamento del fatto di reato. Tuttavia, se il reato per cui si procede è quello di immigrazione clandestina di cui all’art. 10 bis, il nulla osta non è richiesto: il Questore deve solamente comunicare all’autorità giudiziaria l’avvenuta esecuzione dell’espulsione o del respingimento.

 

In altre parole, il comma 4 dell’art. 10 bis del T.U. immigrazione consente – per coloro che siano denunciati per il reato di immigrazione clandestina – di procedere all’espulsione in via accelerata rispetto a quanti sono sottoposti a procedimento penale per altro titolo di reato. Insomma: tutta la normativa ruota attorno alla fondamentale esigenza di individuare con chiarezza il nemico da combattere (lo straniero irregolare, destinatario di sanzione penale) e di procedere il più in fretta possibile al suo allontanamento dal territorio nazionale. In questo contesto ripensare all’esistenza stessa di quell’art. 10 bis avrebbe una innegabile valenza politica.

 

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nella nota sentenza Torreggiani, ha imposto all’Italia di predisporre interventi strutturali: e gli interventi strutturali devono intervenire sulla “penalità nei fatti”, non su quella “dei libri”. Allora, intendiamoci: eliminare dall’ordinamento il reato di immigrazione clandestina significa agire puramente a livello di penalità “nei libri”.  Lo abbiamo detto: per questa fattispecie criminosa non si finisce in galera. Allora perché è così importante espungerla dall’ordinamento? Innanzitutto per le sue caratteristiche di norma simbolica, inaccettabile in un ordinamento che ancora vuole fondare i suoi pilastri normativi sui tradizionali principi di autolimitazione sistemica.

 

E poi perché questa disposizione rientra nella più generale disciplina dell’immigrazione, che attualmente produce innegabili e devastanti effetti criminogenetici. Ma sul punto è necessario intendersi correttamente: non dobbiamo pensare alla sua depenalizzazione solamente per evitare di portare in carcere dei poveri disgraziati, come in questi giorni viene comunemente sostenuto. Dobbiamo eliminarla perché questo rappresenterebbe il primo passo di un’operazione di ristrutturazione complessiva del sistema penale.

 

Un’operazione certamente complessa da perseguire, perchè il diritto penale rappresenta, oggi, lo strumento privilegiato per dare sfogo a decisioni che si fondano su circostanze emotive. Ma da qualche parte bisognerà pur partire. Se non è realistico immaginare di poter raggiungere gli approdi di un diritto penale minimo, possiamo però seriamente praticare forme di resistenza alle lusinghe del diritto penale del nemico".

 

Per approfondimenti:

T.U. immigrazione (D.lgs. n°286/1998)

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