La notte di Dio

Elie Wiesel
Auschwitz, 1944. Un gruppo di ebrei, sulla Lagerstrasse di Birkenau, procede in direzione dei Crematori IV o V. Dall’album Il trapianto degli ebrei di Ungheria, realizzato dai nazisti ad Auschwitz nell’estate 1944La vicenda di Elie Wiesel è per molti aspetti diversa e complementare, rispetto a quella di Primo Levi. Innanzi tutto, nel 1944, mentre il giovane chimico italiano aveva 24 anni al momento del suo arrivo ad Auschwitz, Wiesel era appena un ragazzo, nato nel 1928 in Transilvania. Inoltre, all’italiano fu risparmiata la terribile marcia di evacuazione che portò migliaia di ebrei e di prigionieri nel cuore della Germania, rinviando di altri cinque mesi la loro liberazione; il ragazzo ungherese, invece, fu appunto condotto a Buchenwald insieme a suo padre, che tuttavia non sopravvisse.

La differenza più significativa, tuttavia, riguarda la diversa modalità di essere ebreo. Levi, infatti, era del tutto assimilato e agnostico: il problema religioso non lo tocca, non gli interessa e non lo riguarda. Wiesel, al contrario, era profondamente attaccato alla fede tradizionale. Per lui, la deportazione fu l’inizio di una lunga crisi religiosa, in quanto lo sterminio sembrava mettere in discussione i più elementari postulati della fede biblica. La lacerazione, nel caso di Wiesel, fu doppia, umana e religiosa. In un attimo, tutte le pratiche pie e tutti i comandi della Legge, accettati con gioia sincera, fiducia e speranza nella redenzione messianica, diventarono per il giovane Wiesel vanità e nonsenso: Dio infatti sembrava terribilmente silenzioso e assente. Su di Lui e su tutto quello che, del suo essere e del suo agire, si era detto e pensato fino ad allora, sembrava scesa una terribile e insopportabile coltre di tenebra. Agli occhi di Wiesel, Auschwitz apparve, prim’ancora che la crisi dell’uomo (o almeno dell’essere umano tendenzialmente buono e proteso verso il progresso, come l’aveva sognato l’Illuminismo) la tragica notte di Dio.
Rabbia e sgomento

Wiesel non fu l’unico ebreo a vivere le persecuzioni anche come un trauma religioso. Prima di lui, ispirandosi ai pogrom del 1919, il poeta ebreo sovietico Peretz Markish aveva scritto Il mucchio: una violentissima invettiva contro Dio, in cui lo scrittore contrapponeva al monte Sinai della tradizione biblica (simbolo dell’elezione di Israele) l’informe e caotica catasta dei cadaveri assassinati dai soldati bianchi (il mucchio, appunto, di cui parla il titolo).

Nel 1943, ripensando alle deportazioni da Varsavia verso Treblinka, anche Yitzhak Katzenelson si trasformò in un moderno Giobbe, per accusare i Cieli di non essere crollati dalla vergogna per quanto hanno permesso che accadesse sulla terra: vuoti e impassibili, si sono limitati a guardare dall’alto.

Anche Salmen Gradowski, costretto a lavorare nel Sonderkommando di Auschwitz, in uno dei manoscritti che poi sotterrò nei pressi del Crematorio IV attacca il Creatore dell’universo, che ha lasciato massacrare il suo popolo. Eppure, in questo testo del 1944, lo sdegno si mescola alla meraviglia per la fede di coloro che, nonostante tutto, il venerdì sera si mettevano a pregare, ed allo stupore per l’impatto che parole, melodie e gesti antichissimi avevano su molti degli uomini del Sonderkommando. Una riprova ulteriore del dramma interiore di questi giovani individui, troppo spesso guardati con disprezzo nell’immediato dopoguerra, persino da numerosi sopravvissuti.

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