Lubna Ahmed Hussein: volevo i pantaloni

Il coraggio della giornalista sudanese condannata a 40 frustate per aver portato i pantaloni

Lubna Ahmed Hussein è una giornalista che lavora in un paese dove l’informazione non è facile: il Sudan. In questo paese africano islamico, non solo la libertà di stampa è compromessa, ma anche la situazione delle donne non è semplice. Lubna, ad esempio, è stata incriminata non per aver scritto un articolo scomodo, ma per aver portato un capo d’abbigliamento comodo: i pantaloni.

I diritti in Sudan - “Volevo i pantaloni”: è un libro di Lara Cardella, uscito nel 1989, che traccia un ironico spaccato della Sicilia degli anni ’80 ancora dominata dal maschilismo. E se il titolo richiama il desiderio della protagonista diciannovenne di sentirsi alla pari dei maschi del suo paese indipendentemente dall’abbigliamento, esistono davvero alcuni paesi in cui è proibito alle donne indossare i pantaloni.

Il Sudan, ad esempio. Confinante con Egitto ed Etiopia, il Sudan è uno dei paesi dell’Africa sub-sahariana dove il conflitto tra sud e nord continua senza tregua. I gruppi armati aumentano, così come il numero delle persone sfollate e le truppe inviate dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite dal 2008 sono incapaci di porre fine a uccisioni e stupri soprattutto nella regione del Darfur.

In tutto il paese vige ancora la pena di morte e, secondo il rapporto 2008 di Amnesty International, lo scorso anno almeno 23 persone sono state condannate a morte e 7 impiccate dopo processi iniqui dove le confessioni erano state estorte sotto tortura e agli imputati non era stato riconosciuto neanche un difensore legale. Sadia Idriss Fadul e Amouna Abdallah Daldoum, due ragazze, mogli e madri, originarie del Darfur, di 22 e di 23 anni, sono state condannate a morte per lapidazione, colpevoli di adulterio. La loro sentenza è stata commutata ma, attualmente, sono ancora in prigione, la prima con il figlio più piccolo con sé.

Lo stupro è invece un crimine che ancora non paga. Molte donne sfollate, soprattutto giovani e adolescenti, vengono stuprate quando si allontanano dai campi dove vivono per andare a raccogliere legna da ardere. Purtroppo molte di loro non denunciano alla polizia ciò che accade e, in tutti i casi, difficilmente otterrebbero giustizia. D’altro canto la situazione sembra non poter progredire visto che sono solo le donne quelle incaricate di raccogliere legna –gli uomini infatti non si allontanano dai campi per il timore di essere uccisi.
Le mutilazioni genitali femminili vengono ancora praticate nel nord del Paese.

Moltissimi giornalisti che cercano di denunciare la situazione sono finiti in carcere come prigionieri di coscienza: il governo vieta espressamente di riferire la cronaca di casi penali per la questione Darfur e di parlare di dissidenti.
In tutto questo Lubna Ahmed Hussein è stata condannata per essere stata vista in un luogo pubblico con i pantaloni.

Il “reato” di Lubna” - La giornalista sudanese, che scrive per il quotidiano di sinistra “al-Sahafa”, è stata arrestata nel luglio del 2009 a Khartoum in un ristorante proprio perché indossava un paio di pantaloni sotto una tunica. Per l’articolo 152 del Codice penale sudanese l’atto di portare i pantaloni può ritenersi “osceno e indecente” e quindi punibile con 40 frustate. Insieme a lei nel ristorante quella sera c’erano altre 10 donne (tra cui 2 ragazze di soli 16 e 17 anni) che però hanno accettato la pena, ridotta a 10 frustate.

Invece Lubna non ha accettato la pena, dichiarandosi innocente e anzi, ha rifiutato il perdono presidenziale concessole e ha scelto di essere processata come cittadina sudanese, non beneficiando così dell’immunità a disposizione dei membri dello staff Onu come lei. Ma non è stata zitta e, anzi, ha chiamato a raccolta altre voci per rendere manifesta l’assurdità del reato, invitando giornalisti e politici locali ad assistere alla sua fustigazione.

La voce è circolata e sono nate moltissime campagne e movimenti a suo favore. Davanti al tribunale di Khartoum, il giorno del processo, molte donne si son date appuntamento per manifestare solidarietà alla giornalista. Alla fine il processo, svoltosi a porte chiuse, ha dichiarato la giornalista colpevole, sostituendo però le 40 frustate ad una multa di 200 dollari. Multa che Lubna, ancora una volta, si è rifiutata di pagare. Perché non è giusto, come cerca di dire lei. “Sono innocente. Non pagherò. Piuttosto vado in prigione”.
E infatti, da settembre, è detenuta nel carcere femminile di Omdurman, dove rimarrà per un mese.

In questi ultimi giorni invece, in Sudan, un´altra giornalista islamica è stata condannata a 60 frustate: si tratta di Rozana Yami che, durante il suo show in diretta sul canale libanese Lbc, ha permesso che un uomo parlasse della sua vita sessuale, e ha addirittura pubblicizzato il fatto su Internet.
Anche Rozana, condannata, si appella alla libertà di stampa, rivendicando i diritti violati delle donne in Sudan.

Il nuovo appello di Rozana e il coraggio di Lubna forse possono servire non solo alle sudanesi come esempio, ma anche per ricordare all’Europa e al mondo intero la situazione delle donne in questo paese. Donne che spesso devono subire stupri e mutilazioni, donne che ancora possono morire per adulterio, donne che tutti i giorni mettono in gioco la loro dignità e la loro vita.
Donne che non si possono neanche permettere di “volere i pantaloni”.

Francesca Mezzadri - ottobre 2009

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